Educatore - Come, perché, quando

Educatore

Come, perché, quando

La figura cristiana dell'educatore

 

Si tratta della "sbobinatura" degli incontri per educatori e catechisti che la parrocchia ha organizzato nei giorni 7 e 8 dicembre 1997 presso Villa Perego, a Merate (LC).

Gli incontri sono riportati qui sul sito, nelle prossime pagine (che sono anche linkate qui sotto), nella forma originale con cui sono stati trascritti 17 anni fa (gasp!), senza alcun ritocco a parte la primissima riga di ciascuna pagina.

In allegato c'è anche una versione PDF, qualora qualcuno desiderasse scaricare il materiale.

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1. Presentazione della "Due giorni educatori"

L’itinerario di formazione per gli educatori (catechisti, animatori e tutti coloro che partecipano all’educazione di ragazzi e ragazze nell’ambito della comunità cristiana) vuole assumere in questo anno pastorale 1997/98 una connotazione particolarmente decisiva circa la questione di essere EDUCATORI della fede e di EDUCARE alla fede le nostre sorelle ed i nostri fratelli più piccoli.

Tutto questo nasce da alcune esigenze e da alcune domande:

  • Che cosa significa oggi essere educatori in una comunità?
  • Quale identità e quali strumenti per essere sempre in grado di strutturare cammini di fede e di catechesi dei più piccoli?
  • Quale cooperazione e quale coordinazione per un gruppo catechisti di ben 41 persone?
  • Quale ruolo occupa nella mia vita l’essere investito di questo compito grande e affascinante?
  • A quali responsabilità sono chiamato?


Questa richiesta di un cammino di formazione nasce dalla consapevolezza di essere “collaboratori degli apostoli nell’annuncio del Vangelo”, che richiede sempre più una scelta decisiva e una “professionalità” sempre più qualificata.
Ci accorgiamo come la buona volontà e le nostre intenzioni non siano, da sole, sufficienti per essere all’altezza della situazione: urge un’INTELLIGENZA EDUCATIVA che sia capace di pensare strategie educative alla portata dei nostri ragazzi.

Ci accorgiamo anche che la scelta di essere EDUCATORI esige come fondamento l’esperienza di Gesù Cristo, esige una vita interiore profonda e genuina, perché prima di essere educatori si è TESTIMONI.
“Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo…”

Alle nostre mani, alle nostre azioni, alla nostra vita è affidato il mistero santo e grande di Dio.

Affinché non rendiamo vana la PAROLA DELLA CROCE, è serio sostare e chiedersi: “COME IO SONO EDUCATORE, QUI ED OGGI, IN QUESTA MIA PARROCCHIA”?
Come sto spezzando il PANE DELLA PAROLA e INTRODUCENDO ALLA CONOSCENZA DI DIO?

La “Due Giorni” del 7 e 8 dicembre 1997 non ha inteso rispondere a queste domande in modo immediato, ma vuol attrezzare di quegli strumenti che permettono di essere sempre di più EDUCATORI SECONDO IL CUORE DI DIO.

Allo Spirito Santo che ci educa continuamente a vivere come Gesù affidiamo questo impegno comune e chiediamo la docilità di cuore indispensabile per essere sempre da LUI educati.

2. La figura dell'educatore a partire dalle lettere pastorali del Card. Carlo Maria Martini

 

Intervento di don Flavio Riva, all'epoca vicerettore del Quadriennio Teologico presso il Seminario Arciverscovile di Venegono Inferiore.

Sostanzialmente mi atterrò ai progetti pastorali che nella nostra Chiesa hanno messo maggiormente a tema l’educare, e poi ad alcuni testi del Sinodo che sono sintetici rispetto alla proposta che il Vescovo ha fatto su questo tema.

Voi sapete (se non lo sapete ve lo dico io) che il Vescovo, arrivando a Milano nel 1980, trova una Diocesi con una lunghissima, grande e forte tradizione di educazione. Già dall’inizio di questo secolo tutte le parrocchie della nostra Diocesi sono dotate di un oratorio maschile e di un oratorio femminile, con proposte specifiche di formazione per i maschi e per le femmine: proposte di catechesi, di animazione, culturali (pensate un po’ a tutto il mondo delle filodrammatiche, del teatro; pensate a tutto quello che, nelle nostre parrocchie, ruota attorno ai corpi musicali: la banda, il coro, un sacco di attività, di iniziative, che tendono sì all’animazione e alla vita comune, ma che hanno una sottolineatura, un’attenzione educativa).

Questa attenzione educativa, nella nostra Chiesa, ha avuto anche delle figure popolari di santità, per cui alcuni uomini ed alcune donne si sono santificati, sono stati autentici cristiani nell’educare.

Nella parrocchia dove sono stato io, ad Arcuate, in provincia di Lecco, c’erano due personaggi, Antonietta e Carletto, marito e moglie, quasi novantenni. Loro due, nella nostra comunità, sono stati due straordinari educatori, educatori alla fede, educatori alla preghiera, e da sposati sono stati per tantissimo tempo punto di riferimento per molte coppie. Il vicario episcopale della zona di Monza, che è nativo della parrocchia di Lecco dove ho fatto il prete io, dice chiaramente che deve la sua vocazione al dialogo con il suo educatore che era proprio quel Carletto. Cioè la deve ad un uomo, sposato, che faceva il cartolaio, ma con un gusto per la vita di fede, per la vita della parrocchia, capace di dire ai suoi giovani: « Tu vai bene a fare il prete, tu vai bene a fare il sindacalista, tu vai bene a studiare, tu vai bene a lavorare… oppure: guarda, per te questa cosa non funziona ». E credo che se voi avete pazienza di scavare un po’ nella storia della vostra comunità o di guardarvi in giro sapete scoprire alcuni volti, alcune storie che sono luminose nella vicenda della parrocchia, per dedizione, per impegno, per santità di vita, per dirittura morale, per capacità di affascinare.

Il Vescovo viene dunque in una Diocesi così e trova anche un appuntamento, già fissato in calendario, cioè il congresso eucaristico nazionale del 1983.

Si trova quindi a dover impostare un lavoro pastorale tenendo presente questo obiettivo e comincia, con molta calma, a disegnare un volto, un progetto di Chiesa, attraverso le lettere pastorali che hanno al centro quella dell’eucaristia, nell’83: “Attirerò tutti a me” e hanno come premessa: “La dimensione contemplativa della vita”, prima lettera dell’Arcivescovo Martini; la seconda, “In principio la parola”; la terza, appunto quella sull’Eucaristia; la quarta, dopo aver celebrato l’Eucaristia, “Partenza da Emmaus”. L’icona di questi primi cinque anni è proprio il vangelo di Emmaus; da Emmaus si parte: la missione, quindi. Poi viene la quinta lettera pastorale, “Farsi prossimo”: la carità come frutto della Eucaristia, preparate nella “Dimensione contemplativa”, ascoltata nella “Parola”, celebrate nella liturgia, vissuta nella missione, e testimoniata dalla carità. Questo è il volto di Chiesa che il nostro Vescovo ha pensato di disegnare per la nostra comunità diocesana.

Terminata questa descrizione del volto di Chiesa il Vescovo ha detto: « Io non ho nient’altro da dire se non riprendere, rivisitare questo volto rileggendolo attraverso tre griglie, tre possibili piste, tre percorsi: il primo era quello dell’educare, il secondo quello del comunicare, il terzo quello del vigilare; e questa vigilanza sul volto della Chiesa si è conclusa, poi, nel libro del Sinodo, che voleva essere una sintesi di tutto questo cammino.

La prima delle dimensioni trasversali sul volto di Chiesa è stata quella sull’educare, forse perché era la più facile, forse perché c’era più materiale, sicuramente perché c’era anche più vissuto nelle nostre comunità e ne sono scaturite tre lettere pastorali:

  • “Dio educa il suo popolo”

  • “Itinerari educativi”

  • “Educare ancora”

Quest’ultima - è proprio il caso di dirlo - a furor di popolo, di preti, di consigli: il Vescovo ha quindi ritenuto opportuno fare un terzo anno sull’educare: è la prima volta che ha “ceduto” e la nostra Chiesa è rimasta quindi sul tema dell’educare per un triennio, nella riflessione e nella discussione. Poi si è passati al comunicare ed al vigilare. Tutto questo per mostrare dove è collocata la riflessione del nostro Vescovo. Io partirei, dunque, guardando velocemente dentro la lettera “Dio educa il suo popolo”, che è poi il lancio del tema e un po’ forse anche la prospettiva più alta dalla quale poi il Vescovo deduce o fa partire tutte le riflessioni sull’educazione.

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2a. Uno sguardo contemplativo: "Dio educa il suo popolo"

Uno sguardo contemplativo: “Dio educa il suo popolo”

Guardiamo ad alcune caratteristiche dello stile di Dio che educa. Si tratta di un progetto educativo:

  1. Personale e insieme comunitario;

  2. Graduale e progressivo;

  3. Con momenti di rottura e salti di qualità;

  4. Conflittuale;

  5. Energico;

  6. Progettuale e insieme liberante;

  7. Inserito nella storia;

  8. Realizzato con l’aiuto di molteplici collaboratori;

  9. Compiuto in maniera esemplare nella vita di Gesù;

  10. Iscritto nei cuori mediante l’azione dello Spirito Santo nell’uomo interiore

  11. Espresso nel cammino di fede di Maria “Redemptoris Mater”. (DESP p 24)

All’inizio vi ho detto: «Facciamo questa sera una riflessione pastorale», però come titolo vi dico: “Uno sguardo contemplativo: Dio educa il suo popolo”; c’è un po’ di contraddizione in quello che vi ho detto e in quello che ho scritto, ma secondo me c’è qui una chiave di lettura interessante del magistero del nostro Vescovo: quando comincia a parlare di pastorale non inizia mai dicendo: « Allora, che cosa c’è da fare? », ma sempre: « Dio, che cosa sta facendo per noi? ». Allora, se dobbiamo parlare dell’educazione, il procedimento corretto per un’analisi pastorale e per un lavoro pastoralmente corretto e proficuo è: “Partiamo da Dio”; tant’è vero che la sua lettera del dopo-Sinodo aveva questo titolo: “Ripartiamo da Dio”.

Quindi lo sguardo contemplativo sulla realtà non è un di più o qualcosa a lato dell’azione pastorale, ma è il primo passo. Che cosa vuol dire pastorale? Vuol dire tante cose: tenete in mente quello che Gesù dice nel Vangelo, al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: « Io sono il buon pastore »; e cosa fa il buon pastore? Conosce le sue pecorelle e le ama, dà la vita per loro. Ora, se la nostra azione vuole essere pastorale, deve essere capace di chiamare per nome, di dare la vita, di condividere la stessa passione che il Signore ha avuto nei confronti della gente. Noi siamo chiamati a condividere la stessa passione educativa e pastorale di Gesù. Ed il Vescovo, nella sua lettera “Dio educa il suo popolo”, mette in evidenza due caratteristiche dell’educazione di Dio; le vediamo proprio velocissimamente, io ve le commento: sono cose molto belle che potete riprendere tranquillamente da voi.

Il progetto educativo di Dio ha alcune caratteristiche, si muove lungo alcune direttive: è, innanzitutto, personale e insieme comunitario: nella sua lettera pastorale il Vescovo fa riferimento al cammino che Dio fa compiere al suo popolo nell’Esodo; quindi si chiede: « Come Dio educa il suo popolo? » e risponde: « Dio educa il suo popolo in modo personale, ad esempio chiamando Mosè, chiamando Aronne, intervenendo con personaggi precisi nel popolo, ma insieme comunitario: è tutto un popolo che si muove ». Questo potrebbe anche essere un criterio interessante per verificare il vostro lavoro: il mio lavoro pastorale è personale e insieme comunitario?

È poi graduale e progressivo: graduale significa che io faccio la proposta prendendo per mano e incontrando la persona, il gruppo, la situazione così com’è, al punto in cui si trova. E progressivo! Cioè non devo pensare: « Siccome il livello è basso, abbasso la proposta », ma interagisco con il soggetto in causa che io voglio conoscere, voglio amare, a cui voglio dare il vangelo prendendolo per mano, e lo faccio progredire. Quindi gradualità e progressione.

Ha momenti di rottura e salti di qualità: spesso Dio conduce il suo popolo a dei guadi, a delle scelte: tutta la Bibbia è fatta di queste grandi possibilità; pensate al Salmo 1: “Beato l’uomo che retto procede e che non siede a consiglio con gli empi”. Due sono le vie: tutto, nell’Antico Testamento e nell’uomo, produce questa duplice possibilità: la via del bene e la via del male, la via dei giusti e la via dei peccatori, la via della santità e la via del peccato. Educare significa porre davanti ad un ragazzo, ad un adolescente, ad un giovane, una duplice possibilità, auspicare una sua libera personale decisione e quindi una rottura: quando uno sceglie una strada, si nega, rompe con un’altra possibilità. Non bisogna aver paura di chiedere e proporre ai ragazzi alcuni salti di qualità.

Conflittuale: è un altro modo di guardare a quello che vi dicevo prima: Dio educa il suo popolo in mezzo alle fatiche, in mezzo alle difficoltà: non aspetta che ci siano le condizioni ottimali per dire « Be’, adesso faccio fare questo passo »; sa di entrare in una situazione che è faticosa, piena di conflitti.

D’altra parte il modo di educare di Dio non è blando, è un educare energico; nel cammino dell’Esodo Dio dà il pane, la parola, la manna, la sua provvidenza: non si tira indietro.

È progettuale e liberante, ha come meta la libertà, la felicità dell’uomo, e per questo ha un procedimento, ha un progredire, ha un progetto.

Inserito nella storia: Dio educa non sulle nuvolette, con gli angioletti, ma con le vicende concrete di un popolo; dovete guardare in faccia alle vicende concrete dei ragazzi e degli adolescenti del paese in cui vivete: un conto è fare l’educatore qua, nella Brianza che una volta era cattolica, e diverso è far l’educatore a Verghera, è diverso far l’educatore a Cinisello Balsamo o a Milano a S. Babila; è diverso perché la realtà storica, la realtà concreta è diversa. Certo, tutti guardano la televisione, tutti vestono allo stesso modo, tutti stravedono per le Spice Girls, tutti mettono gli orecchini in un certo modo, però ci sono delle congiunture culturali, storiche, familiari che rendono preciso il lavoro educativo. Lì siete chiamati ad educare, confrontandovi non semplicemente con i testi di psicologia, con tutto il rispetto per la psicologia, ma con la realtà concreta e storica dei ragazzi che vi sono affidati.

Dio non agisce mai da solo ma coinvolge attorno a sé sempre un sacco di collaboratori. Le ultime tre vicende sono anche abbastanza ovvie, scontate, “vanno bene in tutti i discorsi”: è chiaro che il modello di uomo che si vuole costruire ha il volto preciso di Gesù, e che tutto questo avviene sotto l’azione dello Spirito. Il Vescovo citava come ultima possibilità il modello di Maria perché il 1987 era l’anno di Maria, l’anno mariano promosso dal papa. (DESP vuol dire “Dio educa il suo popolo”).

Il Vescovo quindi dice: «Se vogliamo educare dobbiamo imparare a guardare a Dio». E ancora: «Che cosa nasce da questo sguardo contemplativo di Dio, su Dio? Che conseguenza possiamo trarre? Quali attenzioni la nostra Chiesa deve avere per degli educatori?». Propone così queste quattro attenzioni:

  • una verifica costante di quello che si fa,

  • una concentrazione sugli educatori,

  • riconoscere i mezzi, che lui chiama “educare attraverso”,

  • la scelta di una formazione permanente.

La verifica: imparare a vedere ciò che si fa, a intravedere anche qualche “buco”, qualche lacuna, ciò che non si fa; intravedere il passo possibile, ciò che si potrebbe fare, e quindi imparare a “visitare il cantiere” - dice il Vescovo. Nel suo peregrinare attraverso la diocesi, l’Arcivescovo scopre tante ricchezze, tante possibilità, tanti lavori, tante intuizioni: è un po’ quello che ripropone nella lettera pastorale di quest’anno “Tre racconti dello Spirito”: il lavoro ancora una volta è quello di andare a curiosare, a scavare, a scoprire quello che lo spirito già sta facendo, a vedere quanto già nella nostra Chiesa c’è di buono e scoprire, e credere, che è più il buono che c’è, è più quello che c’è già in azione di quanto noi possiamo pensare, produrre, inventare, fantasticare. Il lavoro educativo è innanzitutto il riconoscimento della forza di Dio che agisce, e poi il nostro desiderio di corrispondere a questa forza.

È poi come se il Vescovo dicesse: « Stiamoci un po’ attenti a questi educatori, concentriamoci su di loro »; evitiamo, cioè, che gli educatori siano quelli usati per tutto, dappertutto, in tutte le situazioni; evitiamo di sfruttare gli educatori e qualifichiamo invece la loro presenza come una presenza che va tutelata, che va curata, che va qualificata, che va difesa, che va pubblicizzata, che va riconosciuta: lui fa l’educatore, è abbastanza, è inutile che si disperda in tante cose. Ma questo è un discorso che va detto non soltanto a voi ma anche al parroco, al consiglio pastorale, a una gestione più globale, perché altrimenti l’impressione è che uno deve fare il catechista però deve fare anche l’animatore della liturgia, deve cantare, deve leggere, deve suonare, deve pulire la Chiesa… E allora, se tutte queste cose sono importanti, come sono tutte cose importanti, alla fine uno ci mette lo stesso impegno.

Allora il Vescovo dice: « Proviamo a valorizzare la figura dell’educatore ». Provate a pensare quanto poco la figura del catechista, da noi, è valorizzata. Lo statuto del catechista, in terra di missione, è molto più forte: se uno è catechista, è catechista per sempre: è catechista nella sua parrocchia ed è catechista fuori; il Vescovo può dirgli: « Senti, adesso tu, per questi mesi vai in quel villaggio, ti pago, e tu stai là e prepari i catecumeni al battesimo. Nessuno di noi si sente di fare una cosa di questo tipo, ma nessun Vescovo in Italia chiede a nessun catechista di farlo. C’è uno statuto giuridico, se volete ecclesiale o ecclesiastico, un pochino debole. Ecco, forse andrebbe valorizzato. Ovviamente, per essere valorizzato, il catechista deve essere anche preparato.

Due anni fa ho avuto la gioia di stare per tre settimane in un centro missionario, in Tailandia, nel nord, in mezzo alla foresta: lì venivano i catechisti dalle valli, e ci mettevano un giorno di viaggio; poi stavano alla missione per una settimana e, stipendiati sempre dalla missione, studiavano, si preparavano, preparavano la catechesi e poi ritornavano alle varie comunità che andavano avanti grazie ai catechisti, perché i missionari potevano recarsi lì solo una volta al mese. Ecco, noi non abbiamo la mentalità e forse neanche la strumentazione per poter fare questo; perciò, il nostro Vescovo chiede che la nostra Chiesa si concentri un po’ di più su queste figure di educatori.

Terzo, imparare a conoscere e ad usare bene dei mezzi attraverso i quali noi educhiamo: analisi e vigilanza sui mezzi; devono essere efficaci, evangelici, persuasivi, cristiani. Attorno a questo mondo, a questa polemica, a questa “sottolineatura” ci sta tutta la realtà del tentativo di far diventare il catechismo sempre più un momento formativo piuttosto che una lezione. Non so se a voi scappa qualche volta di dire: « Ho preparato la lezione di catechismo », e quindi far diventare il catechismo come “un’altra scuola”; e questa è una cosa interessante perché quando c’era un mondo cristiano, tutti erano cristiani e i valori erano cristiani, ai bambini cosa si diceva? « Andiamo a dottrina »: tu sei già cristiano, ti metto dentro i contenuti della fede, così tu sei un cristiano adulto. Ora questo vaso fa acqua da tutte le parti: è inutile che io versi i contenuti della fede, la dottrina della fede; non mi serve, è sprecata. Io devo ricostruire il vaso, devo riplasmare una vita cristiana: tant’è vero che i nostri catechismi della CEI si chiamano “catechismi per la vita cristiana”. Allora il momento di catechismo non è semplicemente o solamente il momento dei contenuti, ma il momento dell’esperienza di vita cristiana, per cui attraverso la preghiera, la liturgia, la carità, il gioco, tutto quel discorso che si diceva prima, cui si accennava prima a proposito dell’esser catechista e animatore, si presenta la globalità di una figura cristiana. Non si può più pretendere di avere il bambino che dalla televisione, dai genitori, dalla scuola, dalla nonna, della società, vive la sua vita da cristiano e deve solamente sapere il catechismo: chi è Dio, chi è Gesù, cos’è la Bibbia, cos’è un sacramento, eccetera eccetera.

Quando andavo a catechismo, il mio parroco mi chiedeva: « Chi è Dio? ». Ed io rispondevo: « Dio è l’essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra ». « Cos’è la Chiesa? ». « È la società visibile fatta dai cristiani, santificata da Cristo », eccetera. Io sapevo la dottrina, però non era detto che io così diventassi cristiano. Voi avete fatto in tempo a far queste cose? No, voi siete più giovani di me, fortunati, il mio parroco vecchio com’era… però era così. Dovevi sapere queste cento domande a memoria (non me ne ricordo più neanche una).

La scelta del Vescovo, poi, è quella di additare agli educatori un momento di formazione permanente: non si può mai smettere di formarsi come educatori, come catechisti; questo è un po’ l’inizio del progetto sull’educare.

Adesso passiamo, attraverso la lettura di questi brani del libro del Sinodo, alla conclusione. Ovvero, il Vescovo dà il “la”, la diocesi si mette in movimento, in riflessione su questo tema dell’educare, con la traccia che il Vescovo dà, e produce del materiale, alcune proposte, alcune iniziative che dopo un po’ di agitazione si depositano nel libro del Sinodo, che diventa normativo per la vita della Chiesa. Lì, sugli educatori leggiamo quanto si è depositato del vissuto, dalla sperimentazione, dal dibattito che si è mosso in diocesi negli anni ‘87 – ’90.

2b. Alcune Costituzioni dal Sinodo XLVII sull'educare

Alcune costituzioni dal Sinodo, sull’educare:

Cost. 189 EDUCATORI CHE SANNO INCONTRARE I GIOVANI.

« La consapevolezza che i giovani di oggi vivono in una realtà sociale complessa, dalla quale ricevono numerosi e diversificati messaggi, e in cui sono condizionati da una pluralità di esperienze, richiede educatori che sappiano incontrarli a partire dal loro vissuto, senza tuttavia abdicare alle esigenze radicali del Vangelo, alla cui luce vanno interpretate le diverse esperienze. I giovani domandano di essere conosciuti e capiti, di essere accolti nella loro problematicità e nelle loro attese; desiderano educatori capaci di farsi “compagni di strada”, ma insieme esigono di essere illuminati e sostenuti nel loro cammino ».

Io vi auguro di fare qualche volta l’esperienza - che è sofferenza – di sentirsi come gente che svende il Vangelo. A me è capitato a volte, quando, per voler bene ai ragazzi, dici: «Ecco, devo dirgli così», e nello stesso tempo in cui lo fai senti la sofferenza di pensare «ma non è tutto quello che dovrei dire, non è il tutto di cui loro hanno bisogno». Qualche volta dobbiamo sentire questa sofferenza, la sofferenza di svendere il Vangelo, perché questa sofferenza sta dicendo due cose: che abbiamo passione per i nostri ragazzi, con i quali comunque vogliamo entrare in comunicazione, ma anche che non ci rassegniamo ad entrare solo in comunicazione con loro, che non ci basta essere loro compagni di viaggio, ma che mentre siamo loro compagni di viaggio vogliamo progredire nel cammino, vogliamo additare loro la meta, ciò che ci sta a cuore: la verità su Gesù Cristo.

Ci sono vari comportamenti: c’è quello che si comporta come i suoi ragazzi, tale e quale, così « diventiamo fratelli, faccio vedere che anch’io sono capace di dire le parolacce come lui ». Sì, può funzionare una volta, ma poi… non è questo ciò di cui lui ha bisogno. Certo, se i ragazzi dicono le parolacce ed io ogni volta li sbatto fuori a pedate e sbraito e rompo la comunicazione con loro divento insignificante, non mi ascolteranno mai più. Occorre essere capaci di ascoltarli, di sopportare qualche volta le parolacce, non perché li accontento, ma in modo da andare avanti, per poter dire «Guarda che forse c’è anche altro». Mi fermo qua perché queste cose le capite meglio voi e avete anche in mente le facce, non soltanto le parole.

Cost. 235 GLI EDUCATORI

  1. « Tra le varie figure che operano in oratorio, un ruolo particolare è svolto dagli educatori dei gruppi di base (catechisti dell’iniziazione cristiana, educatori dei ragazzi, degli adolescenti, dei giovani) e dagli educatori dei gruppi di Azione Cattolica.

  2. Agli educatori compete la conduzione dei momenti formativi, compresi quelli della catechesi nel cammino di iniziazione cristiana; nello stesso tempo è chiesto loro di partecipare all’animazione dei momenti della vita del loro gruppo, suscitando la collaborazione degli altri animatori.

  3. La scelta di diventare educatori in oratorio deve essere suscitata, accolta e sostenuta all’interno della comunità parrocchiale e riconosciuta come autentico servizio alla parrocchia stessa e alla realtà dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani.

  4. Se occorre un serio discernimento tra gli adulti, ancor più oculato deve essere tra i giovani, la cui idoneità all’impegno educativo deve essere convincente ed essere adeguatamente sorretta da una puntuale formazione.

  5. Gli adulti e i giovani vivano questo impegno come una missione ecclesiale, con prudenza e sapienza cristiana. È comunque importante che gli educatori abbiano un’adeguata maturità, per cui è inopportuno affidare responsabilità educative dirette ad adolescenti».

     

  1. Prima, facendo conoscenza, dicevo che mi sembrava strano che ci fossero dei giovani che facessero il cammino di iniziazione cristiana, cioè delle elementari, sostanzialmente, fino alla cresima. Infatti la terminologia comune dice così: si intende per catechisti soprattutto quelli dell’iniziazione cristiana, perché c’è ancora l’esperienza del momento del catechismo al quale tutti partecipano. Normalmente nella nostra diocesi quasi tutti vanno a catechismo fino alla cresima. Il problema nasce dopo; allora cambia, non è più il catechista, ma è l’educatore: del preadolescente già cresimato, del post-cresima, e poi, a maggior ragione, l’educatore degli adolescenti, dei giovani. Si dice: « …e dagli educatori dei gruppi di Azione Cattolica… »; mi piacerebbe contarli quanti sono i gruppi di Azione Cattolica, in diocesi, però pazienza… A.c. è la parola più scritta in tutto il Sinodo, ma quando le cose si scrivono è perché non hanno riscontro.

  1. Se il Sinodo dice “la conduzione dei momenti formativi, compresi quelli della catechesi”, significa che i momenti formativi non sono solamente la catechesi, il che apre una serie di domande: quali sono i momenti formativi? Esistono altri momenti formativi? Dobbiamo proprio inventarli altri momenti formativi? O forse devo avere solamente presente che quel ragazzo che viene in oratorio, da me, non è semplicemente lì in quel momento, ma è anche in Chiesa, è anche nella squadra di calcio, è anche lo studente che va a scuola?

Mi ricordo che in campeggio, un anno, abbiamo fatto un incontro, un gemellaggio con una parrocchia dell’Umbria che aveva il campeggio lì di fianco a noi, e facendo ragionare i due gruppi dei ragazzi, loro dell’Umbria e noi di Lecco ci siamo accorti in modo positivo della possibilità che avevamo, un altro tipo di organizzazione, di pastorale, di realtà sociale; i nostri ragazzi praticamente si vedevano tutti i giorni: il lunedì c’era la possibilità della preghiera, il martedì c’era, per gli adolescenti, la preparazione dell’oratorio, il mercoledì c’era la messa, il giovedì c’erano gli allenamenti, il venerdì… Questi dell’Umbria, invece, proprio perché erano sparpagliati per tutti i casolari, avevano come unico momento autentico di aggregazione i quindici giorni del campeggio, si doveva giocare tutto lì. Noi avevamo una diversità, una possibilità di linguaggi, di comunicazione, di interferenza che era molto più ricca.

Qualche volta noi pensiamo ai nostri ragazzi riferendoci a quell’ora che facciamo a catechismo, alla domenica mattina o quello che è. E non pensiamo, invece, che sono tanti i linguaggi della pastorale che interagiscono sui ragazzi. Non posso pretendere che il ragazzo cresca tutto, solamente perché io gli faccio quell’ora di catechismo, ma devo pensare che la parrocchia agisce pastoralmente su un ragazzo con tanti linguaggi, e io devo saperlo, devo avere l’umiltà di riconoscere che non sono io il tutto, il salvatore, il pastore di questo ragazzo, ma do un piccolo contributo, e questo è importante. Intanto perché uno “tira il fiato” e dice: « Be’, insomma , se l’esito è disastroso non è proprio tutta colpa mia », ma poi perché inventa delle attenzioni, colpisce, raggiunge il ragazzo da altri aspetti; questo però richiede un lavoro tra educatori che può essere interessante. Io credo che sia un delitto che uno non sappia, che il catechista non conosca e non possa parlare, non posa confrontarsi con l’allenatore sportivo del ragazzo che viene a catechismo da lui. Lo so che sto dicendo una cosa cattiva, impraticabile o impraticata, ma è scandaloso che una parrocchia proponga dei catechisti, il momento sportivo e l’educatore, il catechista, non possa, non sappia, non debba parlare… è scandaloso! Ma a te cosa interessa, ti interessa il ragazzo o ti interessa fare la tua attività di catechista e la tua attività di educatore? Il ragazzo è lo stesso, mica è schizzato, e non può schizzare, non puoi romperlo, se vuoi fargli un servizio.

  1. Normalmente capita che il don abbia il foglio e chieda: «Allora, chi c’è quest’anno? Chi manca?». Oppure c’è un altro sistema? Spero che ci sia un altro sistema.

  1. Nessun commento.

  1. « È inopportuno »: anche quando si pensa all’oratorio feriale. È vero che se non lo fa l’adolescente, non lo fa nessuno, e forse è anche giusto. Ma teniamo presente che gli adolescenti non possono avere responsabilità educative dirette. Faranno gli educatori dell’oratorio feriale, ma devono sentire alle spalle una comunità degli educatori, un gruppo giovani, un don che non semplicemente li sfrutta e li mette alla prova, ma è attento a loro che si sperimentano anche nell’educazione. Quindi, attenzione a loro che cambiano, a loro che crescono, a loro che verificano eventualmente la loro vocazione di educatori. Attenzione, perché con gli adolescenti si rischia proprio di bruciare; poi sono buoni, sono bravi, sono generosissimi, fan sempre le cose bene durante l’estate… e poi basta, poi vanno in letargo.

Cost 237 I GRUPPI EDUCATIVI DELLE SINGOLE FASCE D’ETÀ

  1. « È necessario che gli educatori e, in alcune circostanze, gli animatori dell’oratorio che si interessano della stessa fascia d’età, si ritrovino periodicamente tra loro, con il direttore o un suo diretto collaboratore, costituendo così il gruppo educatori. Esso ha lo scopo di concretizzare il progetto educativo, di riflettere sulle situazioni specifiche e di programmare il da farsi più opportuno.

  2. Quando, in una singola parrocchia, il numero degli educatori della stessa fascia d’età è troppo esiguo, è opportuna la costituzione di gruppi educatori interparrocchiali ».

Qui, da quello che ho capito io, vado un po’ incontro a quella che è la vostra tradizione: i gruppi catechisti delle singole fasce d’età.

Questo punto del Sinodo va a ribaltare un po’ i nostri punti di vista, la nostra prospettiva: il privilegiare – dice – la fascia di età, cioè lavorare più a fasce d’età… non so… elementari, medie, adolescenti, giovani, oppure iniziazione cristiana, adolescenza e post-cresima. Questo vorrebbe dire che gli educatori si specializzano su una fascia d’età. Si specializzano nel conoscere i testi, i catechismi, si specializzano nello studiare la psicologia di quella fascia di età, a usare gli strumenti, le videocassette, i teatri che possono fare per le elementari, le medie, gli adolescenti… non posso fare un recital con le musiche rock per i ragazzi delle elementari, forse non quadra la cosa, no?

Perché questa proposta? Perché non è plausibile chiedere che un educatore sappia tutto di tutto, che conosca tutti i catechismi, che conosca tutta la psicologia… c’è qualcuno che lo fa per professione ed è giusto che lo faccia bene. Allora pare che gli educatori – ed era la battuta di prima (prima anche della registrazione, N.d.R.)- debbano essere bocciati. Questo – poi si può discutere – ha il vantaggio di dire « io faccio questo servizio, mi specializzo in questo servizio, accompagno quel ragazzo che poi passa ad un’altra sezione educativa, a un’altra età della vita, è giusto che ci siano altre specializzazioni… ». Per voi che siete giovani, magari la cosa può essere diversa, ma provate a pensare se una mamma dovesse dire « io prendo il bambino in prima elementare e lo porto fino a che è diciottenne ». La mamma sclera insieme ai ragazzi, no? Dalla parte dell’educatore sta il dire « io non sto educando a me, non è il mio gruppo, ma io sto facendo un servizio alla comunità cristiana, alla Chiesa, per cui faccio questo servizio e lo faccio bene.

Non so, altre parrocchie che sono ricche di educatori possono – forse anche voi per certi versi – avanzare questo tipo di servizio: un educatore viene “bocciato”, rimane alle elementari e un altro che ha lavorato accompagna la classe. C’è quindi il gruppo di educatori che è specializzato, che ha in mente il percorso, il cammino, per cui non c’è da preparare il catechismo di prima, seconda o terza media tutti gli anni. Altrimenti: « Cosa facciamo quest’anno? ». Allora, in prima media, un anno, mettiamo, parlano solo dei salmi, l’anno dopo del sesso degli angeli, il terzo anno… E allora, ci sono dei ragazzi che leggono soltanto la Bibbia, dei ragazzi che guardano soltanto le diapositive, dei ragazzi… Va bene, ma non dipende da me, da te, da lui: è il progetto educativo dell’oratorio, della comunità cristiana, che fa il catechista; io devo fare quello che il progetto, possibilmente pensato, verificato, concretizzato, mi dice di fare, altrimenti il mio lavoro può servire a me, ma non alla vita della Chiesa.

Per esempio, hai un ragazzo da portare dalla prima elementare alla cresima: quali sono i testi, i catechismi, i sussidi, quali sono le esperienze che si possono far fare? Tutti fanno quello, anche l’anno dopo. Alla fine dell’anno si verifica, si aggiusta, ma lo si fa, altrimenti non creiamo la Chiesa ma dei piccoli club.

*** A questo punto qualcuno sottolinea come il portare avanti una classe di catechismo garantisca, per esempio, la costruzione di un rapporto con la famiglia di ogni ragazzo, importante per capirne la crescita, l’ambiente in cui vive e per poter meglio intervenire ***

D’accordo, io però non dico di fare solo la prima elementare, ma di coprire una fascia d’età. Non so, dalla prima alla quinta, e poi ricomincio con una prima. Dico questo perché da voi, magari, con tanti giovani funziona come già fate, ma vengo da un’esperienza in cui le mamme che facevano catechismo in una seconda media erano un disastro, insomma… Provavo pena per loro perché esse stesse si rendevano benissimo conto che non riuscivano e andavano in crisi.

Possiamo così strutturare un percorso: ad un ragazzo di quarta elementare chiedo di pregare così, ad uno di quinta chiedo di pregare così – come in quarta - ma anche con questa attenzione; in prima media non posso accontentarmi che uno dica le preghiere, ma dovrò aiutarlo a imparare a pregare, o ad usare un’altra strumentazione per pregare.

Cost 238 LA COMUNITÀ DEGLI EDUCATORI E DEGLI ANIMATORI

  1. « L’oratorio realizza il progetto educativo attraverso la comunità degli educatori e degli animatori. Essa si costituisce nella comunità della parrocchia, con la quale tiene rapporti di costante riferimento e confronto. Ha il compito di realizzare gli itinerari educativi, di verificarne l’attenzione complessiva, di garantire l’unità e la comunione degli educatori, attraverso un costante confronto sul servizio reso.

  2. Di essa facciano parte gli educatori dei gruppi di base, quelli dei gruppi di Azione Cattolica, altre figure educative specializzate (ad esempio, educatori di ragazzi, adolescenti e giovani in situazioni di disagio o di devianza; educatori di quanti hanno nella strada il luogo del loro aggregarsi) e tutti gli animatori dell’oratorio.

  3. La comunità degli educatori e degli animatori nel suo insieme si incontrerà più volte nel corso dell’anno per momenti di programmazione, verifica e formazione ».

     

  1. Quindi il progetto educativo dell’oratorio è molto generale, ciascuna classe o ciascuna fascia di età si deve dotare di itinerari educativi. Perciò, l’itinerario educativo delle medie comprende la catechesi, l’educazione alla preghiera, alla carità, l’attività sportiva o l’animazione in oratorio: per le medie è pensata questa attività, magari anche ideare il pellegrinaggio a Roma o la due giorni in montagna; è pensata per le medie e diventa anche questo importante per una parrocchia, diventa tradizione. In questa casa, con i ragazzi di prima media, della cresima, ho fatto delle belle esperienze. Io concludevo sempre il cammino di catechesi facendo due giorni qui, facendo venire il vicario episcopale, i genitori, e i ragazzi ci tenevano. All’inizio l’ho lanciata bene ed è poi diventata una tradizione; i ragazzi aspettavano di andare a Merate, e in seconda media mi dicevano « Perché non andiamo a Merate? ». Rispondevo «No, in seconda media non si va a Merate», perché quando una cosa funziona non devi proporgliela due volte, perché altrimenti viene male. « In seconda media andiamo da un’altra parte ». Diventavano anche dei luoghi, degli appuntamenti, dei riferimenti precisi: tutto ciò crea nelle famiglie un’idea di gente che fa sul serio; non è che una volta vanno sul pero, una volta sul melo, una volta sul fico, una volta fanno la meditazione, una volta invece fanno la “pizzata”. Intuiscono che c’è un progetto, progetto che però ci deve essere.

  1. Nessun commento.

  1. Qui sta a voi stabilire un calendario e trovarvi tutti insieme, o per fasce d’età, e programmare l’anno.

Cost. 239 LA FORMAZIONE DEGLI EDUCATORI

  1. « È indispensabile preparare e sostenere gli educatori nel loro impegno formativo. La formazione deve, soprattutto, riguardare il cammino di fede personale. Infatti, prima di essere tale, un educatore è un cristiano, giovane o adulto, e vive quindi un cammino di fede nel proprio gruppo, partecipa alla catechesi, ha una vita spirituale intensa, con una regola, con momenti di meditazione, di riflessione, di preghiera, di direzione spirituale. In ciò è indubbiamente aiutato dall’appartenenza all’Azione Cattolica. “Gli educatori d’oratorio facciano parte dell’Azione Cattolica o almeno ne condividano la spiritualità” (C. M. MARTINI; Itinerari educativi, n. 72).

  2. La formazione permanente di un educatore si articola inoltre in momenti di riflessione e di lavoro comune dei gruppi educatori e della comunità degli educatori e degli animatori. Qui l’educatore è sollecitato a riflettere sul magistero della Chiesa, sulla sua competenza pedagogica, ed a verificare l’attuazione del progetti educativo.

  3. Un educatore dovrà soprattutto essere aiutato a formarsi come giovane o adulto corresponsabile della vita della sua comunità e della comunità diocesana, vivendo momenti che lo pongono a contatto con un’esperienza di Chiesa più ampia. Diventa allora necessario valorizzare le opportunità offerte nelle scuole di formazione, nei convegni, nelle settimane residenziali proposte dall’Azione Cattolica e dalla FOM, con il coordinamento dell’Ufficio di pastorale giovanile ».

 

  1. Nessun commento.

  1. Nessun commento.

  1. “Corresponsabile” è la parola chiave. Io non sono un volontario, ma mi educo a diventare un corresponsabile, cioè partecipo della missione pastorale della Chiesa, divento un operatore pastorale: non uno che ha tempo da perdere, ma uno che partecipa della cura che Gesù e la Chiesa hanno di conoscere, di amare, di dare la vita, di dare il Vangelo.

2c. Conclusioni

Concludo:

Alcuni punti sintetici

  1. È più importante quello che sono di quello che dico

  2. Quello che dico è per me, innanzitutto, occasione di conversione

  3. Da una mentalità funzionale a una mentalità pastorale

  1. Da un’arrampicata in solitaria a una cordata: quando devo guardare gli altri

  2. Da un educare a me a un educare alla fede della Chiesa: “mi sento”, “mi pare…”

  3. Dalla presunzione di sapere all’umiltà di imparare: “sono le solite cose…”

  4. Dalla paura di esporsi al coraggio di essere mandati: a chi tocca?

  5. Da un educatore parrocchiale a un educatore “diocesano”: “da noi si è sempre fatto così!”

  6. Da un occupare un posto a svolgere un servizio: quando ho voglia di lasciare

  1. La cura degli elenchi

  2. L’agenda dei compleanni; cfr. “Educare ancora” pag. 35.

Le conclusioni sono raggruppate in tre settori.

Il primo è più di natura personale, spirituale, quindi lo comprenderete meglio domani, con don Gigi, credo.

È più importante quello che sono di quello che dico: l’educatore è; non si fa l’educatore, si è educatore.

Quello che dico è per me, innanzitutto, occasione di conversione: quando io parlo del Vangelo, della Chiesa, dei sacramenti, della vita morale, del Credo, queste cose evangelizzano me ancor prima che gli altri e devo sentire l’occasione di preparare il momento di gruppo, il momento educativo, il momento di catechismo, come una straordinaria occasione di conversione per me. Io mi devo lasciar interpellare, educare io stesso da quel vangelo che preparo. Guai se divento un mestierante! « Devo fare il mio catechismo, bene, basta, non me ne frega niente ».

Da una mentalità funzionale, “io faccio il mio catechismo”, a una mentalità pastorale: divento, con il mio prete, con la Chiesa, corresponsabile del vangelo, della missione di Gesù, della Chiesa nel mondo.

Secondo blocco di attenzioni:

È importante che l’educatore non sia l’arrampicatore in solitaria, il “geniaccio” della catechesi, della pastorale, quello che le inventa più belle degli altri. Questo vale soprattutto per le mamme, che ogni anno, quando si arriva alla comunione, devono fare sempre meglio degli altri, e quindi ci vogliono più fiori, più offerte, più confetti, più biglietti… Eh, ma calma! Chi sei? Cosa vuoi? Tu non sei la catechista che deve fare “il meglio”, sei semplicemente una che fa il suo servizio, punto e basta. Lo fai come gli altri, se devi dire qualcosa in più lo dici, ci si confronta, e si decide. Dall’arrampicata solitaria alla cordata: siamo insieme, è importante guardare gli altri.

Attenzione a quando comunicate le vostre esperienze. È chiaro che uno deve dire se stesso: parla anche di se stesso, quando comunica il Vangelo, ma guai a fare diventare le tue esperienze misura della verità, per cui tutti devono fare come te, devono pregare come te, devono commuoversi come te davanti alla stessa cosa. Attenzione, uno deve comunicare se stesso, ma non deve far diventare se stesso misura del Vangelo.

Se uno ha la percezione della bellezza del Vangelo, della complessità della vita dei ragazzi, dei giovani oggi, non può mai dire «tanto ormai sono già formato, tanto io lo so già, sono le solite cose ».

Quando alla fine dell’anno ognuno deve fare il quadro, occorre farsi avanti se si ha il coraggio di adempiere a quello che si sta vivendo nella propria fede, quindi non bisogna aver paura di esporsi e di lasciarsi mandare.

Attenzione a queste parole: « Da noi si è sempre fatto così, tanto qui le cose vanno in questo modo ». Ecco, l’importante è camminare insieme. Anche perché, quando sei dentro una situazione spesso non hai la libertà di guardare con oggettività, per cui il seminarista che viene da fuori magari dice: « Ma non ti accorgi di questo? », perché lui viene da fuori, ha uno sguardo diverso su quello che c’è dentro. Tante volte anche all’educatore della parrocchia fa bene uscire, prendere una boccata d’aria, vedere come gira il mondo, capire che tutto il mondo non è Verghera. Questo respiro fuori della parrocchia si chiama decanato, si chiama diocesi, per cui se il progetto del Vescovo è quello di una Chiesa costruita così, questa deve essere la mia idea di Chiesa che poi si declina a Verghera.

Quando uno dice: «No, basta, non faccio più catechismo, non faccio più l’educatore », che cosa sta dicendo? Che ha occupato il posto e adesso lo libera, oppure ha a cuore un servizio e dice: « Io adesso capisco di non essere più in grado, non ho più tempo, non ho più energia». Che cosa mi fa decidere di lasciare? Mi sono preoccupato che ci siano altri che possano prendere il mio posto? O sono sempre io a decidere con le mie voglie, i miei capricci, legittimi, i miei disegni, legittimi. « Occupo un posto; adesso basta, lo libero; si arrangino ». Oppure: « Ho fatto un servizio, un servizio importante, annunciare il Vangelo ai ragazzi; adesso mi preoccupo che altri lo possano condividere, che altri possano continuare questo servizio ».

Infine due “asterischi” molto semplici, che però possono aiutarvi; voi educatori dovete imparare ad avere questo due attenzioni.

L’attenzione agli elenchi. Non so come facciate ad organizzare catechismo voi: si va all’anagrafe parrocchiale o del comune e si dice: « Prendiamo questi ragazzi, di prima media », e si spedisce la lettera; Oppure si sa che vengono a catechismo. Ecco, questi elenchi, fatti all’inizio dell’anno, teneteli presenti: ci sono ancora quei ragazzi, perché quelli che vengono a catechismo non sono tutti quelli che esistono. Ricordiamoci che siamo in minoranza, noi appartenenti alla Chiesa, ormai; non possiamo dire che siamo in tempo di missione e poi far finta che tutto il mondo sia quello che viene all’oratorio. Questo vale anche per gli adolescenti e i giovani. Ogni tanto abbiate il coraggio di guardare e dire « Okay, io a questi ragazzi propongo il catechismo, e a questi altri? ». Come posso arrivare, se manca la modalità, se sono quelli che vengono soltanto alla messa, soltanto a catechismo, soltanto alla squadra di calcio; e poi, non posso lanciare delle iniziative per cui altri possono entrare in contatto?

L’agenda dei compleanni: è importante che ciascuno di voi segni il compleanno dei propri ragazzi. Il giorno del compleanno, per un ragazzo, è importante, e capire, sapere che il proprio educatore si rende presente – perché telefona, manda un bigliettino – fa maledettamente bene ai ragazzi.

Io ho fatto un’estate durante la quale gli adolescenti di Solbiate mi hanno fatto impazzire perché sono una genia di disgraziati. Sono venuto a casa, dopo aver sbraitato senza ottenere niente, ho preso un pacco di cartoline, e mi sono messo a scrivere a ciascuno, inventando una frase. Be’, ha ottenuto di più una cartolina così che io sbraitando per due mesi. Infatti tornando mi hanno detto: «Ah, grazie, don, la cartolina», e abbiamo cominciato a parlare. Urlando per due mesi, niente.

Aver cura dei rapporti personali, ovvero entrare nella vita personale dei ragazzi, soprattutto quando diventano un pochino grandi. Non pretendete che da un incontro di catechismo cambi la vita, ma se un ragazzo intuisce che tu sei suo alleato nei momenti belli della sua vita - e ci sono anche dei momenti brutti nella vita di un ragazzo - se tu ti fai presente, ti prendi cura, non fai il catechista e l’educatore della parrocchia, ma diventi il suo catechista, il suo educatore, il suo compagno di viaggio; in questo modo si aprono orizzonti sempre nuovi.

A questo punto volevo leggervi e concludere con una bella pagina di “Educare ancora”, che l’Arcivescovo cita da un discorso del Vicario Generale che era allora mons. Corti, l’attuale Vescovo di Novara:

« Vogliamo fare un oratorio che tenga conto della situazione attuale dei ragazzi; bisognerà che l’oratorio realizzi in mille maniere un’attenzione straordinaria per questa età (parla dei ragazzi del dopo cresima) che è poi l’età che coincide con la cresima. Noi li dobbiamo considerare a uno a uno, questi ragazzi, e dobbiamo dire: in questo momento fare l’oratorio vuol dire che la parrocchia garantisce a questi ragazzi e a queste ragazze, anzi, a ciascuno di loro, di avere un punto di riferimento personale, che non si dimentichi di nessuno di loro; per cui, se un ragazzo non si vede, qualcuno sa perché, qualcuno va a vedere, parla con i genitori, parla con il ragazzo, che si sente dunque interpellato, seguito, amato, capito, sostenuto, magari anche richiamato, accolto, incoraggiato, mai anonimo ».

3. Educare oggi - Linee per una verifica insieme

Intervento di Tiziana e Raffaella, due educatrici attive in parrocchia

Noi abbiamo analizzato le modalità, le tecniche, gli strumenti che l’educatore utilizza per poter operare. Per iniziare il nostro discorso ci siamo poste una domanda fondamentale: Chi è l’educatore e cosa vuol dire educare oggi? Cioè: che importanza ha l’educazione oggi? Inizialmente l’educazione veniva vista soltanto come educare all’interno della famiglia e dell’ambito scolastico. Oggi invece si parla di educazione all’oratorio, a maggior ragione all’interno delle famiglie, e in tutti i settori della società. È importante avere queste figure professionali perché sono in grado di apportare nei vari contesti la propria professionalità e di riempire di più precisi contenuti i concetti di competenza pedagogica. In pratica è importante parlare di educatore non soltanto ad un livello semplice, ma serve avere anche delle basi specifiche, e noi abbiamo analizzato la competenza pedagogica dell’educatore: nozioni di psicologia, di pedagogia, importanti per poter operare con delle persone che hanno dei propri vissuti personali, delle proprie situazioni problematiche, e per cercare di dare una direttiva, un aiuto a queste persone. I contenuti che abbiamo analizzato si possono distinguere in tre insiemi principali:

Il primo insieme che abbiamo analizzato si riferisce ad alcune grandi direzioni e prospettive che devono orientare ogni intervento educativo e rieducativo.

Abbiamo analizzato: la prospettiva organica e unitaria dell’esperienza educativa, la prospettiva della salvaguardia e della valorizzazione della soggettività, e infine la dimensione del futuro.

Nella prima prospettiva, quella organica e unitaria dell’esperienza educativa, è importante considerare il soggetto nella sua totalità, nella sua globalità: è collocato all’interno di una società che fondamentalmente crea disagio, che crea una situazione problematica; il soggetto in questo caso non riesce a superarla. È importante che l’educatore professionale ristabilisca questa globalità che l’individuo da solo non riesce a costruire, e soprattutto non riesce a vivere in questa dimensione che ha creato disagio.

Nella seconda prospettiva, quella della salvaguardia e della valorizzazione della soggettività, occorre accettare l’idea che qualunque individuo, non importa se disturbato o meno, ha la tendenza naturale e perciò il diritto a personalizzare l’esperienza, ad avere propri vissuti da cui bisogna dunque partire se si vuole aiutarlo a modificarsi o a modificare il proprio comportamento, senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Perciò, analizzare i problemi personali di ogni singolo individuo è importante per dare una direttiva e soprattutto per porre le basi di una educazione che lo porti a superare il suo passato in vista di una prospettiva futura – e questo è il terzo punto – che poi dovrà vivere. È importante che dal suo passato elabori le sue esperienze negative, ma che nel contempo cresca e si proietti verso un futuro; la figura dell’educatore è importante perché gli dà una direttiva ed un aiuto a superare le difficoltà che non è riuscito precedentemente a superare.

Nella dimensione del futuro l’educatore riesce a proiettare il soggetto verso nuove esperienze più ricche di significato e quindi capaci di dargli un nuovo respiro esistenziale. Queste prospettive danno un quadro generale di dove l’educatore vada generalmente a educare.

Il secondo insieme si riferisce ad alcuni principi metodologici.

Per primo abbiamo il principio della relazione reciproca, ovvero la capacità di realizzare un’autentica comunicazione che richiede accettazione e comprensione dell’altro, interesse per i suoi vissuti, sia positivi che negativi, individuazione delle sue reali motivazioni e quindi uso di molteplici linguaggi. Poiché il disagio è sovente legato a esperienze di non comunicazione è fondamentale che l’educatore sappia ascoltare, ancor più che parlare, come premessa a un fare insieme che a sua volta è premessa agli strumenti formativi più produttivi. È importante quindi avere un’interazione con il soggetto che ci è di fronte, non considerarlo soltanto come una persona che non può avere una propria soggettività; è importante anche considerare l’unicità della singola persona, non creare un modello a propria immagine dell’educatore, ma lasciare che l’individuo si formi in quanto tale, in quanto persona unica. E si può stabilire questo tramite una relazione reciproca, un’empatia, un entrare in contatto empatico con la persona e stabilire quella relazione autentica che ci dovrebbe essere tra educatore ed educando.

Qui vengono sottolineati i termini accettazione e comprensione perché sono i presupposti fondamentali che un educatore dovrebbe avere: l’accettazione dell’altro e la comprensione sono due fondamentali aspetti che fanno sì che l’educatore giunga proprio alla radice, all’essenza stessa della persona. L’educatore deve anche saper ascoltare prima che parlare, proprio perché la capacità di ascolto fa sì che l’educatore entri in contatto con la persona, prima che lui possa dare un giudizio su di essa.

Il secondo principio è quello della possibilità che comporta la capacità di stimolare l’educando verso il futuro, ma anche individuare e accettare traguardi diversi da quelli più consoni al vissuto dell’educatore. Viene sottolineata la capacità di stimolare l’educando verso il futuro, perché non è possibile che un soggetto viva secondo le sue esperienze passate e non proiettandosi verso un futuro prossimo, un futuro che si potrà avvicinare in modo migliore con una figura, che è l’educatore.

Il principio della socialità, invece, è inteso come apertura all’altro, come superamento dell’egocentrismo, inducendo alla scoperta che solo questo può dar senso e valore a sé: dunque, valorizzazione delle differenze, dopo aver riconosciuto la legittimità di esse, ciò che è da mettere in relazione al disagio di essere o di sentirsi diversi dagli altri, da ciò che gli altri si aspettano. Apertura all’altro è presupposto anche per poter ascoltare la persona, per poter entrare in empatia con lei, per poter realizzare quei presupposti fondamentali di accettazione e di comprensione nei confronti dell’altro, altro inteso come soggetto che ha proprie esperienze e propri vissuti. Importante per l’educatore è non imporsi nei confronti della persona, ma dargli gli strumenti, le tecniche, i mezzi giusti per aprirsi ad un futuro migliore, un futuro che lui, prima, non riusciva a vedere.

Il terzo insieme infine indica gli strumenti che l’educatore utilizza, e questo potremmo dire che è la parte più tecnica, cioè cosa l’educatore effettivamente utilizza per entrare in contatto con l’altra persona, con il soggetto educato.

Abbiamo:

Le tecniche dell’osservazione e della comprensione, che è capacità di leggere i vissuti autentici degli educandi; ovviamente l’educatore riuscirà ad entrare in empatia con il soggetto entrando in sintonia con il vissuto passato negativo dell’educando. Queste tecniche dell’osservazione e della comprensione non si studiano sui libri, ma sono anche un modo, uno stile di vita, di essere, perché è difficile entrare in empatia con dei soggetti problematici e studiare queste cose “sul libro”. Nel momento in cui si è tali persone, si può entrare in contatto con qui soggetti, soprattutto se hanno vissuto questo tipo di esperienze.

Le tecniche dell’organizzazione, ossia della capacità di intervenire sulle condizioni anche materiali in cui vive l’educando o in cui avviene l’evento educativo. Si tratta di dar spazio all’educazione indiretta, che si ottiene attraverso le cose e l’organizzazione degli spazi; abbiamo detto che il soggetto è collocato all’interno di una società, per cui si opera sì direttamente sul soggetto, però è importante collocarlo all’interno di un contesto più ampio qual è quello della società. Perciò è molto importante la capacità di intervenire sulle condizioni materiali e della società in cui il soggetto è. Questa è una “educazione indiretta” proprio perché non si opera direttamente sul soggetto, bensì sul contesto, sulla società in sé.

Le tecniche dell’animazione e del lavoro di gruppo, che vanno da un corretto uso della quotidianità alle innumerevoli tecniche del gioco/giocare, dall’uso della corporeità a quello dei vari mezzi di comunicazione di massa. Lo scopo di tutto ciò è quello di sviluppare il gusto dell’andar oltre, nonché il gusto e la gioia di vivere, il che vuol dire utilizzare anche il piacere, a partire da quello che può dare un corretto uso del proprio corpo e delle proprie potenzialità. In questo modo l’educazione è sì improntata al soggetto, ma si può intervenire anche con tecniche di gioco/giocare, che può essere un mezzo per aiutare il soggetto a potersi educare.

Le ultime sono le tecniche dell’identificazione personale, che significano disponibilità a offrirsi all’educando, e possibilità di identificazione, di cui il bambino e l’adolescente hanno grande bisogno, ma di cui sono spesso espropriati: una disponibilità, dunque, da parte dell’educatore professionale, ad un coinvolgimento personale, naturalmente controllato e persino programmato. È importante che l’educatore acquisti il senso di essere educatore come stile di vita: è un coinvolgimento totale della persona, che fa sì che l’educatore entri in empatia con il soggetto educando.

L’educatore rivaluta le esperienze, l’importanza del singolo individuo per poi ampliarla e portarla all’interno di una società.

Abbiamo poi analizzato la figura di un educatore che ancora oggi è importante: la figura di don Bosco.

La sua definizione è quella di sacerdote amico ed educatore, e queste parole riassumono la sua personalità. Per comprendere meglio quale sia il contesto in cui operò, inizieremo con una sua presentazione.

La sua attività nasce in un contesto particolarmente difficile per l’Italia, un contesto segnato dal passaggio da una restaurazione politica al regime liberale. Don Bosco non s’interesserà mai di politica: tutta la sua vita è impegnata nell’ambito educativo, che avverte come la soluzione dei problemi a livello religioso, civile, sociale, politico. Quindi non fa politica ma tiene in considerazione questo ambito seppur da un punto di vista diverso. Siamo all’inizio dell’industrializzazione in Italia, e lui opera a Torino.

I figli dei contadini vengono attratti da questa situazione, si riversano nelle città, sono soli, abbandonati a se stessi, e finiscono in prigione. Don Bosco, visitando le carceri minorili di Torino, si rende conto della grave situazione in cui versano questi giovani, anche perché uscivano dal carcere peggio di come erano entrati, per cui si attiva subito per fare qualcosa.

Inizia la sua attività istituendo quello che è l’oratorio festivo: delle riunioni domenicali, nelle quali oltre alla catechesi c’erano momenti di gioco, momenti di divertimento, insomma era un’attività di aggregazione per queste persone. È importante notare come lui non aspetti la gente nel suo oratorio, ma la vada a cercare. La sua preoccupazione maggiore è la preoccupazione religiosa, che non sta soltanto nelle finalità, ma è proprio il cuore della sua opera formativa; egli sostiene che un’educazione religiosa è il fondamento di una educazione veramente compiuta. La sua educazione viene chiamata integrale in quanto prende in considerazione tutti gli aspetti di cui hanno bisogno questi suoi giovani, tutte le loro necessità, che vanno dal vitto, all’alloggio, ai vestiti, alla situazione lavorativa…

È famoso per l’utilizzo del sistema preventivo, con il rifiuto netto del sistema repressivo. Lo basava sulle parole di S. Paolo, “la carità è benigna e paziente, soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo”.

Si basava fondamentalmente su tre concetti: ragione, religione e amorevolezza. Al centro del suo modello educativo mette l’amorevolezza, che non è sentimentalismo, ma molto di più: esprime tutto quello che comprende una realtà sostanziata di atteggiamenti, sentimenti, condotte, caratteristiche; non è debolezza, perché è costantemente illuminata e purificata dalla ragione e dalla religione. Punta molto su questi termini, così come punta molto su dolcezza e carità: tutto ciò parte dal rispetto verso la persona, soprattutto nei momenti in cui l’educatore deve proporre dei valori importanti , etici e religiosi, ai giovani.

Un altro punto molto bello è quello di amare ciò che piace ai giovani: l’amorevolezza si esprime in gesti e comportamenti benevoli da parte dell’educatore che deve essere sempre presente in mezzo ai giovani, disposto a qualsiasi sacrificio pur di riuscire nel suo impegno di educare. Non basta però sacrificarsi: è importante che essi stessi sentano e riconoscano di essere amati. L’educatore deve essere solidale con il mondo e con gli interessi dei giovani; deve entrare nella loro vita tenendo però sempre presente quello che è il suo compito di persona adulta e matura che propone obiettivi ragionevoli e deve dialogare e stimolare i giovani in iniziative valide. Deve correggere con amorevole fermezza condotte riprovevoli e in questa prospettiva è importante privilegiare la relazione personale con il giovane.

Si ha un rapporto corretto ed efficace con il giovane se c’è un clima di famigliarità; senza la creazione di questo clima famigliare non si può arrivare a dimostrare l’amore dell’educatore verso l’educando, e se non si dimostra questo è impossibile creare quel clima di confidenza che è il presupposto fondamentale per l’accettazione dei valori proposti dall’educatore. Tutto ciò che parte dall’educatore e va verso l’educando deve essere messo in uno specifico clima, in cui quello che viene proposto passa, viene percepito e sentito dall’educando. Tutto ha concretezza in istituzioni che sono improntate su uno spirito famigliare, quindi: ambienti gioiosi, stimolanti, sereni, disponibili, aperti, tutto ciò che può favorire e portare ad una situazione di famigliarità.

Questa è una delle istanze più valide, dal punto di vista pedagogico, di don Bosco: cioè tutto il contesto in cui si sviluppa, vive, nasce, opera la relazione educativa. Nelle sue “case” vengono a esistere vere e proprie comunità, in cui sono proposti il dialogo, la responsabilità di tutti, l’impegno civile, e la crescita personale. Quindi da questi tratti emergono, di veramente importante, le relazioni personali, ovvero essere in grado di stabilire una relazione personale con l’educando, di entrare in empatia, che vuol dire – in modo molto pratico – sentire e percepire quello che ci viene detto, quello che il ragazzo, il bambino, qualunque persona che abbiamo di fronte ci vuole dire, e molte volte non ce lo dice, ma ce lo fa capire. Dobbiamo essere pronti a capire questo; ci sono tante casistiche, tante particolarità, e ci sono determinate persone dalle quali le cose non vengono dette con le parole, ma l’educatore deve essere in grado di sentire anche quello che non gli viene detto, di andare oltre le parole e di cercare molto di più, magari negli atteggiamenti; un determinato modo di porsi nei tuoi confronti ti dice molto di più di mille parole; a volte, però per fare questo bisogna, inizialmente, conoscere ed essere in grado di capire la realtà, la situazione, il vissuto della persona che ci sta di fronte. Poi ci sono, di importanti, i tratti amichevoli, l’entrare nelle attività, negli interessi, ma rimanendo sempre in una situazione di parità – sentire cioè i suoi interessi come tuoi, di condividere – ma tenendo sempre ben presente qual è la funzione, l’obiettivo, cosa dobbiamo dare. E infine il clima di spontaneità e di famigliarità.

Possiamo lasciare delle “domande aperte”:

  • Prima di educare cos’è fondamentale? Presupposto per l’educare è l’educarsi, che vuol dire partire da se stesso, dal conoscere se stesso, altrimenti non arriveremo mai a comprendere nessun’altra persona. Quindi l’importanza di conoscere se stessi e di educarsi per poi riuscire a fare qualcosa, a fare passare qualcosa da noi all’altro.

  • Quali sono i presupposti, le basi, affinché la relazione educativa abbia efficacia?

  • È importante riflettere sulle metodologie di don Bosco e vedere quali funzionano, riportate oggi, 1997, e quali sono, se ci sono, i superamenti, della sua proposta educativa.

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4. La spiritualità dell'educatore

Intervento a cura di don Gianluigi Musazzi, allora rettore della Scuola Vocazionale di Villa Perego

Io abito qui da quattro anni e sono direttore di questa Scuola Vocazionale; ma cos’è una Scuola Vocazionale? Si tratta innanzitutto di una scuola media, e voi sapete che la scuola media ha due obiettivi: il primo è quello di conoscere se stessi, ed il secondo è quello di orientare un cammino, una strada, un indirizzo di studi. La scuola vocazionale prende questi due obiettivi e li dilata, li amplifica dal punto di vista cristiano; il lavoro che viene fatto dai ragazzi sull’orientamento, noi lo chiamiamo discernimento, cioè non solamente “che cosa piace a me”, ma anche “che cosa desidera il Signore”. Sapete che non è una cosa semplice, perché vuol dire mettere al centro non se stessi, ma mettere al centro Dio. E allora questo lo si può fare a vent’anni, qualcuno lo fa a trent’anni, qualcuno lo fa a dodici anni, perché il Signore chiama a tutte le età; voi capite che è molto importante questo: avere fiducia nello Spirito, e non decidere noi quando, come e in che modo il Signore viene da noi. E allora ecco perché sorge una Scuola Vocazionale come questa, che non è un seminario ma non vuole essere neppure un collegio: non è una scuola qualsiasi, ma è una scuola dove viene presentata la vita come vocazione. È fatta solo per i maschi, in questo momento; questo perché la vocazione delle ragazze matura qualche anno più tardi, mentre ai ragazzi capita che nella preadolescenza abbiano già delle grosse intuizioni da questo punto di vista. Le ragazze un po’ meno: ne hanno, ma hanno anche tutti i loro cammini diversi; una ragazza decide a 20 anni, non a 13, un ingresso in noviziato, mentre per i ragazzi abbiamo anche il percorso del seminario; allora la scuola vocazionale è molto in sintonia col seminario.

Prima questo luogo era anche un seminario, dal 1972; precisamente dal 1969 è stata donata tutta questa proprietà, che apparteneva ai conti Perego, all’Arcivescovo di allora, il cardinal Colombo; nel 1972 il cardinale decise quindi di farne una sede per il Seminario Minore. Allora esisteva questa parte, che è la parte originaria della villa, e che è stata poi allungata con l’altra parte, imitando lo stile della villa, dove c’è la sala giochi e dove ci sono le aule, all’interno di questo parco, ed il complesso è rimasto seminario dal 1972 fino al 1988, anno in cui viene chiuso il Seminario perché non c’erano più richieste di ragazzi che intendevano fare questo percorso.

Nel 1991 riprende questa scuola; prima di me c’era don Claudio Silva, mentre ero a Casatenovo, dove Emanuele ha le sue origini; ho fatto lì il coadiutore quando sono diventato prete nel 1987.

Oltre a fare il direttore qui sono anche responsabile della pastorale vocazionale della zona di Lecco, quindi non ho parrocchia, volutamente, ma il mio lavoro consiste nell’accompagnare adolescenti, famiglie soprattutto, perché i ragazzi necessitano in modo indispensabile il rapporto con la famiglia, dato che il lavoro coi ragazzi è un lavoro da fare anche coi genitori. Quindi famiglie, adolescenti, giovani a cui faccio accoglienza quando vengono, mentre di solito non tengo io le relazioni, tranne qualche volta, come questa. Al sabato e alla domenica, poi, vengono dei gruppi, per momenti di ritiro, e anche di convivenza, di fraternità.

Vi propongo ora un testo sulla spiritualità dell’educatore (Gv 3, 25 - 30).

25Nacque allora una discussione tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo la purificazione. 26Andarono perciò da Giovanni e gli dissero: « Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano, e al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti accorrono a lui ». 27Giovanni rispose: « Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: “Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui”. 29Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. 30Egli deve crescere e io invece diminuire ».

La figura che intendo presentare è dunque quella di Giovanni il Battista, prendendo spunto anche dal cammino “Sulle rive del Giordano” e dal “Rinnovo del Patto Educativo”.

Qualche tempo fa la nostra diocesi ha dedicato un anno agli educatori, dicendo: «Sentite, educatori, dobbiamo imparare davvero a trasmettere il mistero di Cristo, a trasmettere la nostra fede attraverso anche un ministero, un ministero laicale»; per far questo il Cardinale ha pensato: «Bene, prendiamo come punto di riferimento la figura di Giovanni il Battista, colui che indica la via». Sulle rive del Giordano la gente accorreva chiedendo « Chi dobbiamo seguire? » e Giovanni rispondeva dicendo: « È lui! Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo ».

L’idea sarebbe che l’educatore è sulle rive del Giordano, pronto quindi a indicare la strada, tant’è vero che nel Vangelo di Luca, nel capitolo terzo, diverse folle interrogavano il Battista, dicendo « Che cosa dobbiamo fare? ». E allora lui rispondeva: « Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi non ha da mangiare faccia altrettanto… vennero anche dei pubblicani e chiesero “Maestro, che cosa dobbiamo fare?” ». Ecco, tutte le diverse categorie di persone vengono da Giovanni il Battista, che dava indicazioni. Ma chi è Giovanni il Battista se non l’educatore?

Allora “sulle rive del Giordano” ha proprio questo significato ed ogni anno la nostra diocesi chiede ai catechisti, al termine dell’anno – non all’inizio: all’inizio è dato il mandato, cioè in una domenica di ottobre la parrocchia chiama e dice “Sentite, voi siete incaricati dalla comunità di annunciare e trasmettere il Vangelo – di rinnovare il patto educativo; questo rinnovo viene fatto di solito in un sabato, durante una veglia, in cui gli educatori vengono convocati; l’anno scorso mi pare che sia stato fatto a Monza.

Del Vangelo di Giovanni ho scelto questo riferimento, al capitolo terzo. (legge fino al versetto 29). Vedete, i discepoli del Battista sono un po’ presuntuosi, eppure Giovanni li aveva messi al corrente, li aveva messi all’erta: « Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui ». Bella, questa espressione; potete prenderla come riferimento per il vostro compito educativo: non siamo noi i salvatori, e se qualcosa va male, non dobbiamo lamentarci con Gesù. Gesù Cristo ha già salvato il mondo! Quindi quelle lamentele, quei dissidi che nascono tra educatori, quelle forme di litigiosità o anche di mancanza di comunicazione… ricordate che « non sono io il Cristo ». (riprende la lettura e arriva alla fine) Sottolineate bene questo « esulta » e anche quest’ultima frase « Egli deve crescere e io diminuire ».

Abbiamo quindi detto che Giovanni il Battista è il modello di colui che conduce altri a Gesù, dunque Giovanni il Battista è un po’ il modello dell’educatore. Ecco, tutti voi avete delle responsabilità educative, certo, ma è importante che noi andiamo a riflettere su noi stessi. Molte volte abbiamo delle missioni, e a volte ci riconosciamo un po’ riusciti, oppure mancati, mentre dobbiamo sentirci persone chiamate a prendere una forte coscienza del dono di Dio che ci è stato dato. Prima ancora di valutare o di fare un bilancio sulla nostra missione educativa, dobbiamo sapere che il Signore ci ha chiamato. Ricordate quando i discepoli tornano dopo la prima missione e dicono « Maestro, abbiamo visto il demonio sconfitto, abbiamo saputo curare, guarire…». E sapete Gesù cosa dice? « Non siate preoccupati del vostro successo o insuccesso; la vostra gioia sia nel fatto che siete stati chiamati alla salvezza ». Non importa se avrete successo oppure no, perché i vostri nomi sono scritti nel cielo: questa è la vostra gioia, la gioia di essere stati chiamati. Quindi occorre capire la nostra relazione con Dio all’interno del nostro essere educatori. Ecco allora la spiritualità dell’educatore: prima di fare delle cose dobbiamo essere, prima ancora di dire dobbiamo vivere questo cammino di fede.

Questo episodio è poco conosciuto, anche perché non è mai indicato nel lezionario, sia feriale che festivo, cioè non viene mai letto; il brano presenta una tensione pastorale, quasi un’invidia tra i discepoli del Battista e quelli di Gesù. Giovanni aveva faticato ad educare i suoi discepoli, aveva faticato a portare con sé dei seguaci, e ora Gesù glieli ruba, gli fa concorrenza. La risposta di Giovanni è straordinaria ed è una straordinaria lezione educativa. Ecco, il versetto 30 è l’atteggiamento di un educatore che è scavalcato, che è superato e proprio perché è superato è portato a riflettere sul vero senso del suo impegno. Quando siete in difficoltà o avete qualche delusione dovete andare alla radice della vostra chiamata. Cosa vuol dire per me essere educatore? Giovanni risponde: « Egli devo crescere. Io devo diminuire »; è una frase che, una volta ascoltata, non si dimentica mai più.

Il brano che ho scelto mostra nel suo insieme una tipica situazione di dove ci sono delle concorrenze, cioè dei concorrenti nel campo dell’educazione: da una parte c’è Giovanni Battista, dall’altra c’è Gesù; entrambi attirano gente ed entrambi fanno discepoli; uno tuttavia ha cominciato prima dell’altro, ed è Giovanni il Battista, mentre il secondo comincia dopo e prende qualcosa del metodo che aveva usato Giovanni: « Colui che era con te… sta battezzando ». Vedete? Gesù usa lo stesso stile, lo stesso metodo, e questo – che è un gesto di purificazione ed era tipico del tempo e dei gruppi che allora vivevano – fa scatenare delle gelosie. Teniamo presente che si scatenano tra i discepoli, non tra Gesù e il Battista, ma tra i discepoli.

Vedete, sotto questo episodio ci sta il problema del saper essere distaccati da se stessi, dai propri successi e dai propri discepoli. Ecco, Giovanni Battista ha questa capacità di prendere le distanze. Ciò che deve stare a cuore al discepolo è che noi dobbiamo aiutare l’incontro con il Maestro, non cercare le nostre gratificazioni.

Io, per esempio, mi ricordo molto bene che appena sono arrivato a Casatenovo ho trovato tanti educatori che “facevano le proprie cose”; non avevano colpa loro, perché il prete che mi precedeva, il coadiutore, era arrivato quando aveva 29 anni e quando sono arrivato io ne aveva già 63. Probabilmente, gli educatori cos’hanno fatto? Facevano quello che potevano, però ciascuno a modo suo, ciascuno “faceva le sue cose”: uno entrava in parrocchia con la Bibbia e diceva « Ah, quest’anno facciamo il libro di Giuditta »; un altro diceva « No, facciamo il libro dell’Esodo »: non c’era la catechesi, cioè non c’era un itinerario; ognuno faceva quello che credeva.

Io credo che sia molto importante staccarsi da sé. Cioè, dire « Io ho questo pallino », va bene, ma i ragazzi devono compiere anche un cammino di fede, devono fare un percorso graduale e questo è dato anche dagli itinerari della fede che il nostro Vescovo ci ha consegnato: sappiamo che questi sono il frutto di riflessioni di psicologi, di teologi, pedagogisti, fisiologi, eccetera. E allora dobbiamo avere la fede, dobbiamo far questo atto di fede, altrimenti facciamo lo nostre “chiesuole”. Guardate che oggi c’è un soggettivismo dilagante, dove al centro c’è il soggetto, non come persona, ma come gruppo, come movimento, e nella fede di questo gruppo o movimento si fanno itinerari propri, che non sempre sono conformi al cammino della Chiesa. Questo papa, al proposito, è molto saggio, dicendo: « In questi tre anni, tutte le comunità pongano al centro Gesù Cristo, lo Spirito, il Padre. È vero che non è mai stato fatto, però aiuta il cammino ».

Vediamo subito la provocazione (versetto 26): « Colui che era con te ». Potremmo dire: colui che ti deve tanto, colui che tu hai accolto, che hai lanciato, ora ti sta rubando il metodo e anche il pubblico. E come reagisce Giovanni? Proprio proclamando il suo distacco da sé ed il suo abbandono. Rispondendo col versetto 28 dice: “Io prendo le distanze da me stesso, dal mio orgoglio, dalla mia presunzione, e mi abbandono a Dio”. Qui afferma come i discepoli non sono suoi, ma Dio glieli ha dati, e allora è Dio che veramente educa il suo popolo, mentre noi siamo solo degli strumenti, ed è lui che dà i doni. E vedete, questa cosa Giovanni l’aveva già detta una volta, proprio al versetto 28.

Anche qui è molto importante che la gente e i ragazzi che ci vedono capiscano che è per un altro che noi lavoriamo: non dobbiamo attaccare le persone a noi.

A me è capitato varie volte, in questi quattro anni, di accompagnare dei ragazzi in seminario, o in noviziato; soprattutto per quelli più piccoli, i genitori temevano che fosse più un legame al sottoscritto; invece, è molto importante che ogni educatore leghi questi ragazzi con Dio, e quando c’è questo legame con Dio tutto il resto diventa molto più trasparente; tutti i dubbi, tutte le paure vengono a crollare, ad essere travolte. Quindi è per un altro che io lavoro come educatore, è per un altro che io mi impegno, e voi che siete i miei discepoli dovete saperlo - dice Giovanni il Battista - e non strumentalizzarmi: capite che dietro questi discepoli c’era il desiderio di suscitare dentro Giovanni un orgoglio, una presunzione verso Gesù che lui aveva già superato, come educatore.

E porta allora un paragone molto bello, al versetto ventinove. Sentite: possiamo chiamare l’educatore “l’amico dello sposo”. Ma chi sono i tre personaggi, la sposa, lo sposo, e l’amico dello sposo?

È facile riconoscere lo sposo nel Signore: così Dio era chiamato nei testi antichi della Bibbia, dal profeta Osea, Ezechiele, Geremia; anche nel Nuovo Testamento Gesù è chiamato “lo sposo”: « Finché c’è lo sposo i miei discepoli non devono digiunare », ricordate? Gesù si presenta come lo sposo.

E la sposa chi è? La sposa è il popolo del Signore, è la Chiesa, sono i ragazzi con cui noi abbiamo a che fare, è la Chiesa che prega, è la Chiesa che ama. Possiamo dire che la sposa è ogni persona che entra in cammino, in comunione con Gesù. E proprio il Signore è venuto a sposare l’umanità; Cristo è venuto per sposare, per unirsi.

E allora fermiamoci su chi è l’amico dello sposo: « L’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta (chi? ascolta lo sposo, ascolta la sposa), esulta di gioia alla voce dello sposo ». Vedete, Giovanni il Battista è l’amico dello sposo, l’educatore è l’amico dello sposo, che prepara la sposa all’incontro. L’amico dello sposo non è quello che si porta via la sposa.

Ancora, di ogni educatore viene detto che « è presente ». La presenza. In oratorio bisogna esser presenti: io non affidavo nessun ragazzo a chi non era presente. Dopo, certo, uno deve studiare, deve fare tante altre cose nella vita, però c’è anche uno spazio… uno deve anche innamorarsi, deve anche sposarsi, deve anche frequentare la sua morosa eccetera, però voi capite che ci sono degli spazi: se uno vuole essere educatore, deve essere presente, deve ascoltare la sposa, quindi deve ascoltare i suoi ragazzi, deve anche essere disponibile.

“È presente”, “ascolta”, e poi “esulta di gioia”. Anche questo riferimento alla gioia è fondamentale: l’educatore non è soltanto soddisfatto di avere compiuto il proprio dovere, ma gioisce, deve gioire perché ama il suo Dio, perché lo mette al di sopra di tutti i suoi pensieri. Io vedo che a volte gli educatori sono preoccupati di fare le loro cose, ci sono responsabilità che girano, si creano delle tensioni, che si avvertono nell’aria, come se fosse elettrica; questa cosa non deve accadere. Il prete, oppure qualcun altro, deve dire « Vieni qua; ma perché ti comporti così? ». È molto importante, perché ci deve essere proprio il clima indicato da Gesù, che ha detto: « Vi conosceremo dall’amore che avrete gli uni per gli altri ». Non dobbiamo ritenerci onnipotenti, onnipresenti, come se tutto dipendesse da noi; molte volte viviamo come se Dio non avesse alcuno spazio, perché tutto è pianificato dai nostri progetti, dalle nostre iniziative. Ecco, ricordiamo la gioia.

Il Battista comprende di essere al termine della sua missione, ed ha amato molto i suoi discepoli, ma ama molto di più il Signore; non è legato alle persone che ha formato, ma anzitutto è “amico dello sposo”: ascolta la sposa, è presente, ed esulta di gioia non per la sposa, ma per la voce dello sposo. È molto importante che un educatore abbia presente tutto questo.

Infine tiro quattro conclusioni, che sono poi quelle dell’Arcivescovo, molto interessanti, e poi faccio io delle considerazioni in base sulla mia esperienza.

  1. Nessuna persona o gruppo è difeso dalle invidie, dalle gelosie che nascono tra educatori, quindi nessuno è esente dal rischio della concorrenza della gelosia. Questo dobbiamo saperlo, perché lo sperimentiamo in noi e negli altri, e dobbiamo anche tenerlo a bada, dobbiamo anche considerarlo, vigilarvi , perché l’invidia e la concorrenza sono un fatto documentato anche dalle prime comunità cristiane. Vi ricordate Barnaba e Paolo? Avevano una grossa competizione tra di loro. Voi sapete che Barnaba va a chiamare Paolo, dopo che era rimasto per 14 anni a Tarso a costruire delle tende, perché, una volta convertito, Saulo non viene subito accolto dalla comunità dato che tutti dubitavano di lui. È Barnaba che da Antiochia lo va a chiamare, dicendogli: « Vieni, abbiamo bisogno di te ». Nasce così una grossa amicizia tra Barnaba e Paolo, ed iniziano i primi viaggi insieme a Giovanni detto anche Marco, probabilmente l’evangelista. A un certo punto, durante un viaggio nasce una discussione tra Paolo e Barnaba per il loro amico Marco, e questa discussione li fa dividere, tant’è vero che, dopo, di Barnaba non sappiamo più niente, mentre Paolo continua la sua missione. Come si può giustificare questa cosa? Col fatto che siamo tutti umani, e se ci sono state anche tra questi due grandi evangelizzatori delle piccole diatribe, sono dovute ad alcune incomprensioni che hanno portato una lacerazione nell’amicizia; questo non è venuto però a scapito della missione che è continuata, invece. Pensate anche alle rivalità che c’erano anche nella comunità di Corinto, dove alcuni dicevano « Io sono di Paolo », e un altro « Io sono di Apollo », « Io di Cefa », eccetera. Paolo, nella lettera ai Filippesi, al capitolo secondo, versetto tre, dice: « Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria ». Educare quindi significa anzitutto superare le gelosie e le possessività.

  1. Da questo brano risulta che Dio solo possiede il suo popolo; è Dio il vero e grande educatore (versetto 27). Chi si lascia prendere dalla possessività, dalla gelosia educativa, diseduca, perché non riconosce il primato di Dio. Guardate che questo è molto importante nelle nostre comunità, bisogna riconoscere che ogni ragazzo, ogni ragazza, appartiene a Dio; com’è consolante questo pensiero nei momenti difficili, quando ci sentiamo educatori mediocri o falliti! È molto importante ricordarci che la persona che ci fa disperare e che vorrei aiutare a crescere è di Dio, appartiene a Lui, è Lui che la educa attraverso il mio umile servizio. Noi siamo servi, amici dello sposo.

  1. Avvicinare altri a Gesù dà gioia: quando il nostro compito di educatore è compiuto ed è vissuto con disinteresse, è fonte di gioia; educare deve dare gioia. Avvicinare altri a Gesù deve consolare, riempire di gioia la nostra vita. Bisogna avere questa capacità di distacco e questo ci deve far crescere come persone, come educatori; di conseguenza bisogna educare in un clima di gioia. È fondamentale: noi qualche volta lo facciamo come mestiere, ma il nostro deve essere un ministero, anche se oggi, a dire la verità, non si deve più chiamare con questo termine, “ministero”, perché è uscita una disposizione dalla Santa Sede, dalla coordinazione per i laici, secondo cui non si può più parlare di “ministeri laicali”, ma di “collaborazioni laicali” – si chiamano così, adesso – mentre prima era tutto un ministero. Adesso si sta attenti perché la parola “ministero” fa riferimento a un sacramento, dato che il rischio è davvero che dopo diventiamo tutti consacrati; invece si parla di “collaboratori laicali”. È una notizia uscita la settimana scorsa. Comunque, tornando a noi, tanto più educhi con gioia, tanto più ricevi la gioia.

  1. «Egli deve crescere e io invece diminuire ». Perché Gesù possa crescere in coloro che educo, io devo diminuire; è una parola dura, questa, che torna spesso nei vangeli: « Chi perde la sua vita, la ritroverà, chi vuol salvare la sua vita, la perderà ». Diminuire significa anzitutto diminuire di fronte a Gesù: Tu solo sei grande, Tu devi crescere, e allorché sarò una sola cosa con Te, sarò grande poiché Tu lo sei. Allora dovremmo essere capaci di diminuire con gioia anche di fronte a coloro che educhiamo; vedete: è l’opposto del plagio. Quando avviene un plagio? Quando l’educatore cresce e la persona educata rimpicciolisce: un educatore fa dipendere l’altro da sé, il quale vive questa dipendenza, e non l’autonomia. L’educazione è il contrario: colui che è educato cresce, e colui che educa si ritira; questa è l’educazione. Possiamo vederlo anche nelle famiglie, quando c’è un’eccessiva possessività che impedisce la crescita dei propri figli: ci sono delle mamme possessive, o dei papà – un po’ meno; genitori che hanno un sogno, un progetto, e che vogliono imporlo ai propri figli, pur se con buone intenzioni, mentre è la crescita delle persone che va cercata. Ci sono tanti segnali, spie che dimostrano che questo ragazzo non è cresciuto; perché? Perché i genitori hanno eccessivamente soffocato la sua crescita e non l’hanno reso autonomo. Egli deve crescere ed io diminuire: questo è il vero compendio di ogni pedagogia che vuole portare al Cristo. È il principio fondamentale di ogni vera fatica apostolica, di ogni vero ministero, di ogni vero servizio alla propria comunità.

Dopo queste riflessioni intendevo cogliere cosa voleva dire “Spiritualità dell’educatore”; certo, questo è già tutto in riferimento alla spiritualità, però, ricordiamoci che un educatore che non prega non può essere amico dello sposo; deve conoscerlo, quindi, avere dei momenti di preghiera nella propria giornata – anche non tantissimi – ma ci deve essere un momento della mia giornata in cui mi fermo a pregare.

Ancora, il riferimento ai sacramenti: un educatore deve nutrirsi dei sacramenti. La Messa – magari facciamo una Messa a settimana, un po’ significativa, una Messa feriale, o al sabato mattina; può capitare che una volta non si vada, però… L’Eucaristia, la Riconciliazione, sono molto importante. Una volta al mese, vivere il Sacramento della Riconciliazione, è indispensabile. Una volta al mese quando uno vive una vita abbastanza ordinata, però mi ricordo che, in alcuni periodi, alcuni giovani avevano bisogno di confessarsi ogni 15 giorni. Non è una regola, però una volta al mese – 12 volte in un anno – se siamo nel cammino ordinario, mi sembra il minimo.

La direzione spirituale: io so che il vostro parroco è molto bravo, e penso che o il vostro parroco o un prete, in decanato, vi possano aiutare, per farsi conoscere; ma non da uno di passaggio, invece da una persona di riferimento, in modo che, se voi fate questo lavoro su di voi, poi potete farlo sugli altri. Potete proporre la direzione spirituale a dei vostri ragazzini, perché la direzione spirituale non è la confessione che necessariamente richiede la presenza di un ministro ordinato, ma va bene anche la figura di un laico. A Casatenovo c’era una ragazza, molto brava, che veniva da me a fare direzione spirituale e poi la faceva ad alcune ragazzine; è molto importante.

Poi, raccomando di trovare qualche momento di ritiro personale, durante l’anno; non necessariamente come questo, dove venite tutti insieme, anche da soli. Non so, potete andare all’Eremo di S. Salvatore, magari in estate. Ci sono dei giovani che, in treno vanno ad Erba, con lo zaino, e da lì fanno 3 – 4 km a piedi per arrivare all’Eremo. C’è bisogno solo della fede, fede e basta. Cioè: uno non ha la macchina, si organizza, ma bisogna avere fede. Si possono avere dei momenti di ritiro personale, durante l’anno, o magari dire « Io, un sabato al mese, lo dedico a questo ».

Devo anche amare profondamente la Chiesa, che è la sposa, i documenti del Vescovo, il mio pastore, il mio parroco, le suore con tutti i difetti: ne abbiamo tutti. Gesù ha chiamato Pietro: anche lui ne aveva di suoi, quindi non dobbiamo scandalizzarci. O crediamo nell’incarnazione di Dio, cioè che Dio si è incarnato ed ha voluto assumere la nostra condizione, oppure facciamo una Chiesa “di perfetti”; ma in una Chiesa di perfetti, chi trova posto? Un’élite, no? Quindi, tenere presente di amare il proprio prete, il proprio parroco.

Fondamentale è essere presenti, amare i ragazzi, i giovani, con un’attenzione per le vocazioni: anche questa vostra missione educativa è una vocazione. I ragazzi devono avvertire, incontrandovi, che c’è una dedizione che voi esprimete con il vostro servizio. Quando noi diciamo che la pastorale giovanile è intrinsecamente vocazionale, intendiamo questo: tutti abbiamo una chiamata da riconoscere nella nostra vita; non solamente quello che desideriamo, ma che cosa il Signore desidera da noi.

Capovolgere: non mettere al centro noi stessi, ma mettere al centro la volontà di Dio. O crediamo in questo, crediamo che Dio vede e vuole il nostro bene più di quanto noi desideriamo, oppure iniziamo a dire che Lui è un concorrente nei nostri confronti, quindi quello che vuole Lui è invece ciò che mi reca difficoltà, disagio. C’è un atto di fede nei confronti di Dio, e poi, chiaramente, uno pensa: « Ma la vocazione non sarà solo quella di diventare suora, di diventare prete? ». Certo, e se uno dice: « Caspita, io sento di amare il Signore andando insieme al mio ragazzo, alla mia ragazza », questa è la tua vocazione. Tuttavia, escludere a priori che il Signore ti possa chiedere la vita al servizio suo, mi sembra che non sia cristiano, che non sia da credenti. Io credo che i nostri educatori almeno una volta, un anno nella propria vita lo debbano dedicare a questo, al cammino di discernimento vocazionale. Certo che se uno dice « Io sono già legato a questo ragazzo, a questa ragazza », non deve fare questo anno adesso, però se è nella condizione di essere libero – libero dagli affetti, da un cammino vocazionale già percorso, non ancora fidanzato…

Per esempio, prima questo cammino era in riferimento al “Cenacolo”, che era proprio un itinerario di spiritualità per giovani dell’Azione Cattolica che desideravano appunto verificare la domanda circa il senso della propria vita. Si può dire: « Io non sono ancora “compromesso” con nessuno, forse sono nella condizione di potermi chiedere se il Signore non mi domanda anche tutta la vita” ». Io lo dico sempre ai giovani, perché poi queste cose vengono fuori a 25, 26 o 27 anni, e si pensa: « Quanto tempo ho perso! ». Dai 18 ai 25 anni basta dedicare un anno.

Io sto seguendo un ragazzo, che mi aveva chiesto di fare un discernimento monastico ed ha fatto un anno di contatto, di cammino accanto a questa comunità monastica. L’anno successivo ha trovato una splendida ragazza e mi dice: « Don, adesso cosa faccio? ». Gli chiedo « Dove va il tuo cuore? In monastero, o con questa ragazza? ». « Ti dico la verità, don, in questo momento va con questa ragazza ». « Allora tu devi fare questo percorso. Se tu vedi che questo cammino di fidanzamento, di amicizia, di conoscenza prende consistenza, vuol dire che il Signore ti chiede di fare questo percorso e tu sei sereno con te stesso… Certo che se quando vedi un monaco non capisci più niente, nel senso bello della parola, cioè dentro di te c’è questa risonanza, questo riferimento continuo, allora calma, vuol dire che questa ragazza qui non è proprio il senso della tua vita ». Questo è un discernimento vocazionale, un cammino, e richiede la lettura, la riflessione di sé e di quello che si ha dentro. Quindi è necessario amare le vocazioni, perché i ragazzini che avete lì possono diventare seminaristi o novizie, capite? Non dovete solamente pensare: “Devo fare questa paginetta, devo comunicare loro queste cose”, ma dietro c’è tutta una storia, c’è tutta una famiglia, ci sono le proprie aspirazioni, i propri desideri, il proprio futuro.

E poi bisogna imparare a lavorare in sintonia: in sintonia vuol dire in équipe e quindi cercare collaboratori e collaborazione tra di voi. Così saremo veramente figli di Dio e non otterremo, come diceva S. Bernardo di Chiaravalle, « tre categorie: gli schiavi, i mercenari, e i Figli di Dio: gli schiavi fanno le cose perché altrimenti hanno paura di essere puniti da Dio, quindi non sono liberi; i mercenari lo fanno di mestiere, e non so che interesse abbiano, di gratificazione oppure di promozioni umane o altro ancora; i Figli di Dio, invece, sono coloro che sono chiamati a vivere la propria dedizione agli altri”.

Possono sorgere delle domande:

  1. Che cosa dico a Dio, che è il primo educatore? Che cosa chiedo per me? Che cosa chiedo per i miei ragazzi e le ragazze che educo e che in realtà sono suoi?

  2. Mi sento un educatore riuscito, mediocre, come vivo tale sensazione? Sono consapevole che l’opera educativa, la missione che mi è stata affidata non è mia ma sua? Come prendo le distanze da me, dai miei stessi successi o insuccessi educativi per acquistare libertà? Mi abbandono a Dio, che è il vero e grande educatore?

  3. Quando educo provo la gioia, sono davvero nella gioia? Posso anch’io, come Giovanni il Battista, dire: « la mia gioia è compiuta » (Gv 3, 29) ? Sono veramente un amico dello sposo?

A proposito della possessività educativa, sono capace di tirarmi indietro quando occorre, oppure mi ritengo totalmente e talmente necessario da non dovermi mai tirare indietro, e quasi anche da creare qualche schermo, qualche ostacolo perché questo ragazzo, questa ragazza possa incontrare il Signore?

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