2. La figura dell'educatore a partire dalle lettere pastorali del Card. Carlo Maria Martini

 

Intervento di don Flavio Riva, all'epoca vicerettore del Quadriennio Teologico presso il Seminario Arciverscovile di Venegono Inferiore.

Sostanzialmente mi atterrò ai progetti pastorali che nella nostra Chiesa hanno messo maggiormente a tema l’educare, e poi ad alcuni testi del Sinodo che sono sintetici rispetto alla proposta che il Vescovo ha fatto su questo tema.

Voi sapete (se non lo sapete ve lo dico io) che il Vescovo, arrivando a Milano nel 1980, trova una Diocesi con una lunghissima, grande e forte tradizione di educazione. Già dall’inizio di questo secolo tutte le parrocchie della nostra Diocesi sono dotate di un oratorio maschile e di un oratorio femminile, con proposte specifiche di formazione per i maschi e per le femmine: proposte di catechesi, di animazione, culturali (pensate un po’ a tutto il mondo delle filodrammatiche, del teatro; pensate a tutto quello che, nelle nostre parrocchie, ruota attorno ai corpi musicali: la banda, il coro, un sacco di attività, di iniziative, che tendono sì all’animazione e alla vita comune, ma che hanno una sottolineatura, un’attenzione educativa).

Questa attenzione educativa, nella nostra Chiesa, ha avuto anche delle figure popolari di santità, per cui alcuni uomini ed alcune donne si sono santificati, sono stati autentici cristiani nell’educare.

Nella parrocchia dove sono stato io, ad Arcuate, in provincia di Lecco, c’erano due personaggi, Antonietta e Carletto, marito e moglie, quasi novantenni. Loro due, nella nostra comunità, sono stati due straordinari educatori, educatori alla fede, educatori alla preghiera, e da sposati sono stati per tantissimo tempo punto di riferimento per molte coppie. Il vicario episcopale della zona di Monza, che è nativo della parrocchia di Lecco dove ho fatto il prete io, dice chiaramente che deve la sua vocazione al dialogo con il suo educatore che era proprio quel Carletto. Cioè la deve ad un uomo, sposato, che faceva il cartolaio, ma con un gusto per la vita di fede, per la vita della parrocchia, capace di dire ai suoi giovani: « Tu vai bene a fare il prete, tu vai bene a fare il sindacalista, tu vai bene a studiare, tu vai bene a lavorare… oppure: guarda, per te questa cosa non funziona ». E credo che se voi avete pazienza di scavare un po’ nella storia della vostra comunità o di guardarvi in giro sapete scoprire alcuni volti, alcune storie che sono luminose nella vicenda della parrocchia, per dedizione, per impegno, per santità di vita, per dirittura morale, per capacità di affascinare.

Il Vescovo viene dunque in una Diocesi così e trova anche un appuntamento, già fissato in calendario, cioè il congresso eucaristico nazionale del 1983.

Si trova quindi a dover impostare un lavoro pastorale tenendo presente questo obiettivo e comincia, con molta calma, a disegnare un volto, un progetto di Chiesa, attraverso le lettere pastorali che hanno al centro quella dell’eucaristia, nell’83: “Attirerò tutti a me” e hanno come premessa: “La dimensione contemplativa della vita”, prima lettera dell’Arcivescovo Martini; la seconda, “In principio la parola”; la terza, appunto quella sull’Eucaristia; la quarta, dopo aver celebrato l’Eucaristia, “Partenza da Emmaus”. L’icona di questi primi cinque anni è proprio il vangelo di Emmaus; da Emmaus si parte: la missione, quindi. Poi viene la quinta lettera pastorale, “Farsi prossimo”: la carità come frutto della Eucaristia, preparate nella “Dimensione contemplativa”, ascoltata nella “Parola”, celebrate nella liturgia, vissuta nella missione, e testimoniata dalla carità. Questo è il volto di Chiesa che il nostro Vescovo ha pensato di disegnare per la nostra comunità diocesana.

Terminata questa descrizione del volto di Chiesa il Vescovo ha detto: « Io non ho nient’altro da dire se non riprendere, rivisitare questo volto rileggendolo attraverso tre griglie, tre possibili piste, tre percorsi: il primo era quello dell’educare, il secondo quello del comunicare, il terzo quello del vigilare; e questa vigilanza sul volto della Chiesa si è conclusa, poi, nel libro del Sinodo, che voleva essere una sintesi di tutto questo cammino.

La prima delle dimensioni trasversali sul volto di Chiesa è stata quella sull’educare, forse perché era la più facile, forse perché c’era più materiale, sicuramente perché c’era anche più vissuto nelle nostre comunità e ne sono scaturite tre lettere pastorali:

  • “Dio educa il suo popolo”

  • “Itinerari educativi”

  • “Educare ancora”

Quest’ultima - è proprio il caso di dirlo - a furor di popolo, di preti, di consigli: il Vescovo ha quindi ritenuto opportuno fare un terzo anno sull’educare: è la prima volta che ha “ceduto” e la nostra Chiesa è rimasta quindi sul tema dell’educare per un triennio, nella riflessione e nella discussione. Poi si è passati al comunicare ed al vigilare. Tutto questo per mostrare dove è collocata la riflessione del nostro Vescovo. Io partirei, dunque, guardando velocemente dentro la lettera “Dio educa il suo popolo”, che è poi il lancio del tema e un po’ forse anche la prospettiva più alta dalla quale poi il Vescovo deduce o fa partire tutte le riflessioni sull’educazione.

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2a. Uno sguardo contemplativo: "Dio educa il suo popolo"

Uno sguardo contemplativo: “Dio educa il suo popolo”

Guardiamo ad alcune caratteristiche dello stile di Dio che educa. Si tratta di un progetto educativo:

  1. Personale e insieme comunitario;

  2. Graduale e progressivo;

  3. Con momenti di rottura e salti di qualità;

  4. Conflittuale;

  5. Energico;

  6. Progettuale e insieme liberante;

  7. Inserito nella storia;

  8. Realizzato con l’aiuto di molteplici collaboratori;

  9. Compiuto in maniera esemplare nella vita di Gesù;

  10. Iscritto nei cuori mediante l’azione dello Spirito Santo nell’uomo interiore

  11. Espresso nel cammino di fede di Maria “Redemptoris Mater”. (DESP p 24)

All’inizio vi ho detto: «Facciamo questa sera una riflessione pastorale», però come titolo vi dico: “Uno sguardo contemplativo: Dio educa il suo popolo”; c’è un po’ di contraddizione in quello che vi ho detto e in quello che ho scritto, ma secondo me c’è qui una chiave di lettura interessante del magistero del nostro Vescovo: quando comincia a parlare di pastorale non inizia mai dicendo: « Allora, che cosa c’è da fare? », ma sempre: « Dio, che cosa sta facendo per noi? ». Allora, se dobbiamo parlare dell’educazione, il procedimento corretto per un’analisi pastorale e per un lavoro pastoralmente corretto e proficuo è: “Partiamo da Dio”; tant’è vero che la sua lettera del dopo-Sinodo aveva questo titolo: “Ripartiamo da Dio”.

Quindi lo sguardo contemplativo sulla realtà non è un di più o qualcosa a lato dell’azione pastorale, ma è il primo passo. Che cosa vuol dire pastorale? Vuol dire tante cose: tenete in mente quello che Gesù dice nel Vangelo, al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: « Io sono il buon pastore »; e cosa fa il buon pastore? Conosce le sue pecorelle e le ama, dà la vita per loro. Ora, se la nostra azione vuole essere pastorale, deve essere capace di chiamare per nome, di dare la vita, di condividere la stessa passione che il Signore ha avuto nei confronti della gente. Noi siamo chiamati a condividere la stessa passione educativa e pastorale di Gesù. Ed il Vescovo, nella sua lettera “Dio educa il suo popolo”, mette in evidenza due caratteristiche dell’educazione di Dio; le vediamo proprio velocissimamente, io ve le commento: sono cose molto belle che potete riprendere tranquillamente da voi.

Il progetto educativo di Dio ha alcune caratteristiche, si muove lungo alcune direttive: è, innanzitutto, personale e insieme comunitario: nella sua lettera pastorale il Vescovo fa riferimento al cammino che Dio fa compiere al suo popolo nell’Esodo; quindi si chiede: « Come Dio educa il suo popolo? » e risponde: « Dio educa il suo popolo in modo personale, ad esempio chiamando Mosè, chiamando Aronne, intervenendo con personaggi precisi nel popolo, ma insieme comunitario: è tutto un popolo che si muove ». Questo potrebbe anche essere un criterio interessante per verificare il vostro lavoro: il mio lavoro pastorale è personale e insieme comunitario?

È poi graduale e progressivo: graduale significa che io faccio la proposta prendendo per mano e incontrando la persona, il gruppo, la situazione così com’è, al punto in cui si trova. E progressivo! Cioè non devo pensare: « Siccome il livello è basso, abbasso la proposta », ma interagisco con il soggetto in causa che io voglio conoscere, voglio amare, a cui voglio dare il vangelo prendendolo per mano, e lo faccio progredire. Quindi gradualità e progressione.

Ha momenti di rottura e salti di qualità: spesso Dio conduce il suo popolo a dei guadi, a delle scelte: tutta la Bibbia è fatta di queste grandi possibilità; pensate al Salmo 1: “Beato l’uomo che retto procede e che non siede a consiglio con gli empi”. Due sono le vie: tutto, nell’Antico Testamento e nell’uomo, produce questa duplice possibilità: la via del bene e la via del male, la via dei giusti e la via dei peccatori, la via della santità e la via del peccato. Educare significa porre davanti ad un ragazzo, ad un adolescente, ad un giovane, una duplice possibilità, auspicare una sua libera personale decisione e quindi una rottura: quando uno sceglie una strada, si nega, rompe con un’altra possibilità. Non bisogna aver paura di chiedere e proporre ai ragazzi alcuni salti di qualità.

Conflittuale: è un altro modo di guardare a quello che vi dicevo prima: Dio educa il suo popolo in mezzo alle fatiche, in mezzo alle difficoltà: non aspetta che ci siano le condizioni ottimali per dire « Be’, adesso faccio fare questo passo »; sa di entrare in una situazione che è faticosa, piena di conflitti.

D’altra parte il modo di educare di Dio non è blando, è un educare energico; nel cammino dell’Esodo Dio dà il pane, la parola, la manna, la sua provvidenza: non si tira indietro.

È progettuale e liberante, ha come meta la libertà, la felicità dell’uomo, e per questo ha un procedimento, ha un progredire, ha un progetto.

Inserito nella storia: Dio educa non sulle nuvolette, con gli angioletti, ma con le vicende concrete di un popolo; dovete guardare in faccia alle vicende concrete dei ragazzi e degli adolescenti del paese in cui vivete: un conto è fare l’educatore qua, nella Brianza che una volta era cattolica, e diverso è far l’educatore a Verghera, è diverso far l’educatore a Cinisello Balsamo o a Milano a S. Babila; è diverso perché la realtà storica, la realtà concreta è diversa. Certo, tutti guardano la televisione, tutti vestono allo stesso modo, tutti stravedono per le Spice Girls, tutti mettono gli orecchini in un certo modo, però ci sono delle congiunture culturali, storiche, familiari che rendono preciso il lavoro educativo. Lì siete chiamati ad educare, confrontandovi non semplicemente con i testi di psicologia, con tutto il rispetto per la psicologia, ma con la realtà concreta e storica dei ragazzi che vi sono affidati.

Dio non agisce mai da solo ma coinvolge attorno a sé sempre un sacco di collaboratori. Le ultime tre vicende sono anche abbastanza ovvie, scontate, “vanno bene in tutti i discorsi”: è chiaro che il modello di uomo che si vuole costruire ha il volto preciso di Gesù, e che tutto questo avviene sotto l’azione dello Spirito. Il Vescovo citava come ultima possibilità il modello di Maria perché il 1987 era l’anno di Maria, l’anno mariano promosso dal papa. (DESP vuol dire “Dio educa il suo popolo”).

Il Vescovo quindi dice: «Se vogliamo educare dobbiamo imparare a guardare a Dio». E ancora: «Che cosa nasce da questo sguardo contemplativo di Dio, su Dio? Che conseguenza possiamo trarre? Quali attenzioni la nostra Chiesa deve avere per degli educatori?». Propone così queste quattro attenzioni:

  • una verifica costante di quello che si fa,

  • una concentrazione sugli educatori,

  • riconoscere i mezzi, che lui chiama “educare attraverso”,

  • la scelta di una formazione permanente.

La verifica: imparare a vedere ciò che si fa, a intravedere anche qualche “buco”, qualche lacuna, ciò che non si fa; intravedere il passo possibile, ciò che si potrebbe fare, e quindi imparare a “visitare il cantiere” - dice il Vescovo. Nel suo peregrinare attraverso la diocesi, l’Arcivescovo scopre tante ricchezze, tante possibilità, tanti lavori, tante intuizioni: è un po’ quello che ripropone nella lettera pastorale di quest’anno “Tre racconti dello Spirito”: il lavoro ancora una volta è quello di andare a curiosare, a scavare, a scoprire quello che lo spirito già sta facendo, a vedere quanto già nella nostra Chiesa c’è di buono e scoprire, e credere, che è più il buono che c’è, è più quello che c’è già in azione di quanto noi possiamo pensare, produrre, inventare, fantasticare. Il lavoro educativo è innanzitutto il riconoscimento della forza di Dio che agisce, e poi il nostro desiderio di corrispondere a questa forza.

È poi come se il Vescovo dicesse: « Stiamoci un po’ attenti a questi educatori, concentriamoci su di loro »; evitiamo, cioè, che gli educatori siano quelli usati per tutto, dappertutto, in tutte le situazioni; evitiamo di sfruttare gli educatori e qualifichiamo invece la loro presenza come una presenza che va tutelata, che va curata, che va qualificata, che va difesa, che va pubblicizzata, che va riconosciuta: lui fa l’educatore, è abbastanza, è inutile che si disperda in tante cose. Ma questo è un discorso che va detto non soltanto a voi ma anche al parroco, al consiglio pastorale, a una gestione più globale, perché altrimenti l’impressione è che uno deve fare il catechista però deve fare anche l’animatore della liturgia, deve cantare, deve leggere, deve suonare, deve pulire la Chiesa… E allora, se tutte queste cose sono importanti, come sono tutte cose importanti, alla fine uno ci mette lo stesso impegno.

Allora il Vescovo dice: « Proviamo a valorizzare la figura dell’educatore ». Provate a pensare quanto poco la figura del catechista, da noi, è valorizzata. Lo statuto del catechista, in terra di missione, è molto più forte: se uno è catechista, è catechista per sempre: è catechista nella sua parrocchia ed è catechista fuori; il Vescovo può dirgli: « Senti, adesso tu, per questi mesi vai in quel villaggio, ti pago, e tu stai là e prepari i catecumeni al battesimo. Nessuno di noi si sente di fare una cosa di questo tipo, ma nessun Vescovo in Italia chiede a nessun catechista di farlo. C’è uno statuto giuridico, se volete ecclesiale o ecclesiastico, un pochino debole. Ecco, forse andrebbe valorizzato. Ovviamente, per essere valorizzato, il catechista deve essere anche preparato.

Due anni fa ho avuto la gioia di stare per tre settimane in un centro missionario, in Tailandia, nel nord, in mezzo alla foresta: lì venivano i catechisti dalle valli, e ci mettevano un giorno di viaggio; poi stavano alla missione per una settimana e, stipendiati sempre dalla missione, studiavano, si preparavano, preparavano la catechesi e poi ritornavano alle varie comunità che andavano avanti grazie ai catechisti, perché i missionari potevano recarsi lì solo una volta al mese. Ecco, noi non abbiamo la mentalità e forse neanche la strumentazione per poter fare questo; perciò, il nostro Vescovo chiede che la nostra Chiesa si concentri un po’ di più su queste figure di educatori.

Terzo, imparare a conoscere e ad usare bene dei mezzi attraverso i quali noi educhiamo: analisi e vigilanza sui mezzi; devono essere efficaci, evangelici, persuasivi, cristiani. Attorno a questo mondo, a questa polemica, a questa “sottolineatura” ci sta tutta la realtà del tentativo di far diventare il catechismo sempre più un momento formativo piuttosto che una lezione. Non so se a voi scappa qualche volta di dire: « Ho preparato la lezione di catechismo », e quindi far diventare il catechismo come “un’altra scuola”; e questa è una cosa interessante perché quando c’era un mondo cristiano, tutti erano cristiani e i valori erano cristiani, ai bambini cosa si diceva? « Andiamo a dottrina »: tu sei già cristiano, ti metto dentro i contenuti della fede, così tu sei un cristiano adulto. Ora questo vaso fa acqua da tutte le parti: è inutile che io versi i contenuti della fede, la dottrina della fede; non mi serve, è sprecata. Io devo ricostruire il vaso, devo riplasmare una vita cristiana: tant’è vero che i nostri catechismi della CEI si chiamano “catechismi per la vita cristiana”. Allora il momento di catechismo non è semplicemente o solamente il momento dei contenuti, ma il momento dell’esperienza di vita cristiana, per cui attraverso la preghiera, la liturgia, la carità, il gioco, tutto quel discorso che si diceva prima, cui si accennava prima a proposito dell’esser catechista e animatore, si presenta la globalità di una figura cristiana. Non si può più pretendere di avere il bambino che dalla televisione, dai genitori, dalla scuola, dalla nonna, della società, vive la sua vita da cristiano e deve solamente sapere il catechismo: chi è Dio, chi è Gesù, cos’è la Bibbia, cos’è un sacramento, eccetera eccetera.

Quando andavo a catechismo, il mio parroco mi chiedeva: « Chi è Dio? ». Ed io rispondevo: « Dio è l’essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra ». « Cos’è la Chiesa? ». « È la società visibile fatta dai cristiani, santificata da Cristo », eccetera. Io sapevo la dottrina, però non era detto che io così diventassi cristiano. Voi avete fatto in tempo a far queste cose? No, voi siete più giovani di me, fortunati, il mio parroco vecchio com’era… però era così. Dovevi sapere queste cento domande a memoria (non me ne ricordo più neanche una).

La scelta del Vescovo, poi, è quella di additare agli educatori un momento di formazione permanente: non si può mai smettere di formarsi come educatori, come catechisti; questo è un po’ l’inizio del progetto sull’educare.

Adesso passiamo, attraverso la lettura di questi brani del libro del Sinodo, alla conclusione. Ovvero, il Vescovo dà il “la”, la diocesi si mette in movimento, in riflessione su questo tema dell’educare, con la traccia che il Vescovo dà, e produce del materiale, alcune proposte, alcune iniziative che dopo un po’ di agitazione si depositano nel libro del Sinodo, che diventa normativo per la vita della Chiesa. Lì, sugli educatori leggiamo quanto si è depositato del vissuto, dalla sperimentazione, dal dibattito che si è mosso in diocesi negli anni ‘87 – ’90.

2b. Alcune Costituzioni dal Sinodo XLVII sull'educare

Alcune costituzioni dal Sinodo, sull’educare:

Cost. 189 EDUCATORI CHE SANNO INCONTRARE I GIOVANI.

« La consapevolezza che i giovani di oggi vivono in una realtà sociale complessa, dalla quale ricevono numerosi e diversificati messaggi, e in cui sono condizionati da una pluralità di esperienze, richiede educatori che sappiano incontrarli a partire dal loro vissuto, senza tuttavia abdicare alle esigenze radicali del Vangelo, alla cui luce vanno interpretate le diverse esperienze. I giovani domandano di essere conosciuti e capiti, di essere accolti nella loro problematicità e nelle loro attese; desiderano educatori capaci di farsi “compagni di strada”, ma insieme esigono di essere illuminati e sostenuti nel loro cammino ».

Io vi auguro di fare qualche volta l’esperienza - che è sofferenza – di sentirsi come gente che svende il Vangelo. A me è capitato a volte, quando, per voler bene ai ragazzi, dici: «Ecco, devo dirgli così», e nello stesso tempo in cui lo fai senti la sofferenza di pensare «ma non è tutto quello che dovrei dire, non è il tutto di cui loro hanno bisogno». Qualche volta dobbiamo sentire questa sofferenza, la sofferenza di svendere il Vangelo, perché questa sofferenza sta dicendo due cose: che abbiamo passione per i nostri ragazzi, con i quali comunque vogliamo entrare in comunicazione, ma anche che non ci rassegniamo ad entrare solo in comunicazione con loro, che non ci basta essere loro compagni di viaggio, ma che mentre siamo loro compagni di viaggio vogliamo progredire nel cammino, vogliamo additare loro la meta, ciò che ci sta a cuore: la verità su Gesù Cristo.

Ci sono vari comportamenti: c’è quello che si comporta come i suoi ragazzi, tale e quale, così « diventiamo fratelli, faccio vedere che anch’io sono capace di dire le parolacce come lui ». Sì, può funzionare una volta, ma poi… non è questo ciò di cui lui ha bisogno. Certo, se i ragazzi dicono le parolacce ed io ogni volta li sbatto fuori a pedate e sbraito e rompo la comunicazione con loro divento insignificante, non mi ascolteranno mai più. Occorre essere capaci di ascoltarli, di sopportare qualche volta le parolacce, non perché li accontento, ma in modo da andare avanti, per poter dire «Guarda che forse c’è anche altro». Mi fermo qua perché queste cose le capite meglio voi e avete anche in mente le facce, non soltanto le parole.

Cost. 235 GLI EDUCATORI

  1. « Tra le varie figure che operano in oratorio, un ruolo particolare è svolto dagli educatori dei gruppi di base (catechisti dell’iniziazione cristiana, educatori dei ragazzi, degli adolescenti, dei giovani) e dagli educatori dei gruppi di Azione Cattolica.

  2. Agli educatori compete la conduzione dei momenti formativi, compresi quelli della catechesi nel cammino di iniziazione cristiana; nello stesso tempo è chiesto loro di partecipare all’animazione dei momenti della vita del loro gruppo, suscitando la collaborazione degli altri animatori.

  3. La scelta di diventare educatori in oratorio deve essere suscitata, accolta e sostenuta all’interno della comunità parrocchiale e riconosciuta come autentico servizio alla parrocchia stessa e alla realtà dei ragazzi, degli adolescenti e dei giovani.

  4. Se occorre un serio discernimento tra gli adulti, ancor più oculato deve essere tra i giovani, la cui idoneità all’impegno educativo deve essere convincente ed essere adeguatamente sorretta da una puntuale formazione.

  5. Gli adulti e i giovani vivano questo impegno come una missione ecclesiale, con prudenza e sapienza cristiana. È comunque importante che gli educatori abbiano un’adeguata maturità, per cui è inopportuno affidare responsabilità educative dirette ad adolescenti».

     

  1. Prima, facendo conoscenza, dicevo che mi sembrava strano che ci fossero dei giovani che facessero il cammino di iniziazione cristiana, cioè delle elementari, sostanzialmente, fino alla cresima. Infatti la terminologia comune dice così: si intende per catechisti soprattutto quelli dell’iniziazione cristiana, perché c’è ancora l’esperienza del momento del catechismo al quale tutti partecipano. Normalmente nella nostra diocesi quasi tutti vanno a catechismo fino alla cresima. Il problema nasce dopo; allora cambia, non è più il catechista, ma è l’educatore: del preadolescente già cresimato, del post-cresima, e poi, a maggior ragione, l’educatore degli adolescenti, dei giovani. Si dice: « …e dagli educatori dei gruppi di Azione Cattolica… »; mi piacerebbe contarli quanti sono i gruppi di Azione Cattolica, in diocesi, però pazienza… A.c. è la parola più scritta in tutto il Sinodo, ma quando le cose si scrivono è perché non hanno riscontro.

  1. Se il Sinodo dice “la conduzione dei momenti formativi, compresi quelli della catechesi”, significa che i momenti formativi non sono solamente la catechesi, il che apre una serie di domande: quali sono i momenti formativi? Esistono altri momenti formativi? Dobbiamo proprio inventarli altri momenti formativi? O forse devo avere solamente presente che quel ragazzo che viene in oratorio, da me, non è semplicemente lì in quel momento, ma è anche in Chiesa, è anche nella squadra di calcio, è anche lo studente che va a scuola?

Mi ricordo che in campeggio, un anno, abbiamo fatto un incontro, un gemellaggio con una parrocchia dell’Umbria che aveva il campeggio lì di fianco a noi, e facendo ragionare i due gruppi dei ragazzi, loro dell’Umbria e noi di Lecco ci siamo accorti in modo positivo della possibilità che avevamo, un altro tipo di organizzazione, di pastorale, di realtà sociale; i nostri ragazzi praticamente si vedevano tutti i giorni: il lunedì c’era la possibilità della preghiera, il martedì c’era, per gli adolescenti, la preparazione dell’oratorio, il mercoledì c’era la messa, il giovedì c’erano gli allenamenti, il venerdì… Questi dell’Umbria, invece, proprio perché erano sparpagliati per tutti i casolari, avevano come unico momento autentico di aggregazione i quindici giorni del campeggio, si doveva giocare tutto lì. Noi avevamo una diversità, una possibilità di linguaggi, di comunicazione, di interferenza che era molto più ricca.

Qualche volta noi pensiamo ai nostri ragazzi riferendoci a quell’ora che facciamo a catechismo, alla domenica mattina o quello che è. E non pensiamo, invece, che sono tanti i linguaggi della pastorale che interagiscono sui ragazzi. Non posso pretendere che il ragazzo cresca tutto, solamente perché io gli faccio quell’ora di catechismo, ma devo pensare che la parrocchia agisce pastoralmente su un ragazzo con tanti linguaggi, e io devo saperlo, devo avere l’umiltà di riconoscere che non sono io il tutto, il salvatore, il pastore di questo ragazzo, ma do un piccolo contributo, e questo è importante. Intanto perché uno “tira il fiato” e dice: « Be’, insomma , se l’esito è disastroso non è proprio tutta colpa mia », ma poi perché inventa delle attenzioni, colpisce, raggiunge il ragazzo da altri aspetti; questo però richiede un lavoro tra educatori che può essere interessante. Io credo che sia un delitto che uno non sappia, che il catechista non conosca e non possa parlare, non posa confrontarsi con l’allenatore sportivo del ragazzo che viene a catechismo da lui. Lo so che sto dicendo una cosa cattiva, impraticabile o impraticata, ma è scandaloso che una parrocchia proponga dei catechisti, il momento sportivo e l’educatore, il catechista, non possa, non sappia, non debba parlare… è scandaloso! Ma a te cosa interessa, ti interessa il ragazzo o ti interessa fare la tua attività di catechista e la tua attività di educatore? Il ragazzo è lo stesso, mica è schizzato, e non può schizzare, non puoi romperlo, se vuoi fargli un servizio.

  1. Normalmente capita che il don abbia il foglio e chieda: «Allora, chi c’è quest’anno? Chi manca?». Oppure c’è un altro sistema? Spero che ci sia un altro sistema.

  1. Nessun commento.

  1. « È inopportuno »: anche quando si pensa all’oratorio feriale. È vero che se non lo fa l’adolescente, non lo fa nessuno, e forse è anche giusto. Ma teniamo presente che gli adolescenti non possono avere responsabilità educative dirette. Faranno gli educatori dell’oratorio feriale, ma devono sentire alle spalle una comunità degli educatori, un gruppo giovani, un don che non semplicemente li sfrutta e li mette alla prova, ma è attento a loro che si sperimentano anche nell’educazione. Quindi, attenzione a loro che cambiano, a loro che crescono, a loro che verificano eventualmente la loro vocazione di educatori. Attenzione, perché con gli adolescenti si rischia proprio di bruciare; poi sono buoni, sono bravi, sono generosissimi, fan sempre le cose bene durante l’estate… e poi basta, poi vanno in letargo.

Cost 237 I GRUPPI EDUCATIVI DELLE SINGOLE FASCE D’ETÀ

  1. « È necessario che gli educatori e, in alcune circostanze, gli animatori dell’oratorio che si interessano della stessa fascia d’età, si ritrovino periodicamente tra loro, con il direttore o un suo diretto collaboratore, costituendo così il gruppo educatori. Esso ha lo scopo di concretizzare il progetto educativo, di riflettere sulle situazioni specifiche e di programmare il da farsi più opportuno.

  2. Quando, in una singola parrocchia, il numero degli educatori della stessa fascia d’età è troppo esiguo, è opportuna la costituzione di gruppi educatori interparrocchiali ».

Qui, da quello che ho capito io, vado un po’ incontro a quella che è la vostra tradizione: i gruppi catechisti delle singole fasce d’età.

Questo punto del Sinodo va a ribaltare un po’ i nostri punti di vista, la nostra prospettiva: il privilegiare – dice – la fascia di età, cioè lavorare più a fasce d’età… non so… elementari, medie, adolescenti, giovani, oppure iniziazione cristiana, adolescenza e post-cresima. Questo vorrebbe dire che gli educatori si specializzano su una fascia d’età. Si specializzano nel conoscere i testi, i catechismi, si specializzano nello studiare la psicologia di quella fascia di età, a usare gli strumenti, le videocassette, i teatri che possono fare per le elementari, le medie, gli adolescenti… non posso fare un recital con le musiche rock per i ragazzi delle elementari, forse non quadra la cosa, no?

Perché questa proposta? Perché non è plausibile chiedere che un educatore sappia tutto di tutto, che conosca tutti i catechismi, che conosca tutta la psicologia… c’è qualcuno che lo fa per professione ed è giusto che lo faccia bene. Allora pare che gli educatori – ed era la battuta di prima (prima anche della registrazione, N.d.R.)- debbano essere bocciati. Questo – poi si può discutere – ha il vantaggio di dire « io faccio questo servizio, mi specializzo in questo servizio, accompagno quel ragazzo che poi passa ad un’altra sezione educativa, a un’altra età della vita, è giusto che ci siano altre specializzazioni… ». Per voi che siete giovani, magari la cosa può essere diversa, ma provate a pensare se una mamma dovesse dire « io prendo il bambino in prima elementare e lo porto fino a che è diciottenne ». La mamma sclera insieme ai ragazzi, no? Dalla parte dell’educatore sta il dire « io non sto educando a me, non è il mio gruppo, ma io sto facendo un servizio alla comunità cristiana, alla Chiesa, per cui faccio questo servizio e lo faccio bene.

Non so, altre parrocchie che sono ricche di educatori possono – forse anche voi per certi versi – avanzare questo tipo di servizio: un educatore viene “bocciato”, rimane alle elementari e un altro che ha lavorato accompagna la classe. C’è quindi il gruppo di educatori che è specializzato, che ha in mente il percorso, il cammino, per cui non c’è da preparare il catechismo di prima, seconda o terza media tutti gli anni. Altrimenti: « Cosa facciamo quest’anno? ». Allora, in prima media, un anno, mettiamo, parlano solo dei salmi, l’anno dopo del sesso degli angeli, il terzo anno… E allora, ci sono dei ragazzi che leggono soltanto la Bibbia, dei ragazzi che guardano soltanto le diapositive, dei ragazzi… Va bene, ma non dipende da me, da te, da lui: è il progetto educativo dell’oratorio, della comunità cristiana, che fa il catechista; io devo fare quello che il progetto, possibilmente pensato, verificato, concretizzato, mi dice di fare, altrimenti il mio lavoro può servire a me, ma non alla vita della Chiesa.

Per esempio, hai un ragazzo da portare dalla prima elementare alla cresima: quali sono i testi, i catechismi, i sussidi, quali sono le esperienze che si possono far fare? Tutti fanno quello, anche l’anno dopo. Alla fine dell’anno si verifica, si aggiusta, ma lo si fa, altrimenti non creiamo la Chiesa ma dei piccoli club.

*** A questo punto qualcuno sottolinea come il portare avanti una classe di catechismo garantisca, per esempio, la costruzione di un rapporto con la famiglia di ogni ragazzo, importante per capirne la crescita, l’ambiente in cui vive e per poter meglio intervenire ***

D’accordo, io però non dico di fare solo la prima elementare, ma di coprire una fascia d’età. Non so, dalla prima alla quinta, e poi ricomincio con una prima. Dico questo perché da voi, magari, con tanti giovani funziona come già fate, ma vengo da un’esperienza in cui le mamme che facevano catechismo in una seconda media erano un disastro, insomma… Provavo pena per loro perché esse stesse si rendevano benissimo conto che non riuscivano e andavano in crisi.

Possiamo così strutturare un percorso: ad un ragazzo di quarta elementare chiedo di pregare così, ad uno di quinta chiedo di pregare così – come in quarta - ma anche con questa attenzione; in prima media non posso accontentarmi che uno dica le preghiere, ma dovrò aiutarlo a imparare a pregare, o ad usare un’altra strumentazione per pregare.

Cost 238 LA COMUNITÀ DEGLI EDUCATORI E DEGLI ANIMATORI

  1. « L’oratorio realizza il progetto educativo attraverso la comunità degli educatori e degli animatori. Essa si costituisce nella comunità della parrocchia, con la quale tiene rapporti di costante riferimento e confronto. Ha il compito di realizzare gli itinerari educativi, di verificarne l’attenzione complessiva, di garantire l’unità e la comunione degli educatori, attraverso un costante confronto sul servizio reso.

  2. Di essa facciano parte gli educatori dei gruppi di base, quelli dei gruppi di Azione Cattolica, altre figure educative specializzate (ad esempio, educatori di ragazzi, adolescenti e giovani in situazioni di disagio o di devianza; educatori di quanti hanno nella strada il luogo del loro aggregarsi) e tutti gli animatori dell’oratorio.

  3. La comunità degli educatori e degli animatori nel suo insieme si incontrerà più volte nel corso dell’anno per momenti di programmazione, verifica e formazione ».

     

  1. Quindi il progetto educativo dell’oratorio è molto generale, ciascuna classe o ciascuna fascia di età si deve dotare di itinerari educativi. Perciò, l’itinerario educativo delle medie comprende la catechesi, l’educazione alla preghiera, alla carità, l’attività sportiva o l’animazione in oratorio: per le medie è pensata questa attività, magari anche ideare il pellegrinaggio a Roma o la due giorni in montagna; è pensata per le medie e diventa anche questo importante per una parrocchia, diventa tradizione. In questa casa, con i ragazzi di prima media, della cresima, ho fatto delle belle esperienze. Io concludevo sempre il cammino di catechesi facendo due giorni qui, facendo venire il vicario episcopale, i genitori, e i ragazzi ci tenevano. All’inizio l’ho lanciata bene ed è poi diventata una tradizione; i ragazzi aspettavano di andare a Merate, e in seconda media mi dicevano « Perché non andiamo a Merate? ». Rispondevo «No, in seconda media non si va a Merate», perché quando una cosa funziona non devi proporgliela due volte, perché altrimenti viene male. « In seconda media andiamo da un’altra parte ». Diventavano anche dei luoghi, degli appuntamenti, dei riferimenti precisi: tutto ciò crea nelle famiglie un’idea di gente che fa sul serio; non è che una volta vanno sul pero, una volta sul melo, una volta sul fico, una volta fanno la meditazione, una volta invece fanno la “pizzata”. Intuiscono che c’è un progetto, progetto che però ci deve essere.

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  1. Qui sta a voi stabilire un calendario e trovarvi tutti insieme, o per fasce d’età, e programmare l’anno.

Cost. 239 LA FORMAZIONE DEGLI EDUCATORI

  1. « È indispensabile preparare e sostenere gli educatori nel loro impegno formativo. La formazione deve, soprattutto, riguardare il cammino di fede personale. Infatti, prima di essere tale, un educatore è un cristiano, giovane o adulto, e vive quindi un cammino di fede nel proprio gruppo, partecipa alla catechesi, ha una vita spirituale intensa, con una regola, con momenti di meditazione, di riflessione, di preghiera, di direzione spirituale. In ciò è indubbiamente aiutato dall’appartenenza all’Azione Cattolica. “Gli educatori d’oratorio facciano parte dell’Azione Cattolica o almeno ne condividano la spiritualità” (C. M. MARTINI; Itinerari educativi, n. 72).

  2. La formazione permanente di un educatore si articola inoltre in momenti di riflessione e di lavoro comune dei gruppi educatori e della comunità degli educatori e degli animatori. Qui l’educatore è sollecitato a riflettere sul magistero della Chiesa, sulla sua competenza pedagogica, ed a verificare l’attuazione del progetti educativo.

  3. Un educatore dovrà soprattutto essere aiutato a formarsi come giovane o adulto corresponsabile della vita della sua comunità e della comunità diocesana, vivendo momenti che lo pongono a contatto con un’esperienza di Chiesa più ampia. Diventa allora necessario valorizzare le opportunità offerte nelle scuole di formazione, nei convegni, nelle settimane residenziali proposte dall’Azione Cattolica e dalla FOM, con il coordinamento dell’Ufficio di pastorale giovanile ».

 

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  1. “Corresponsabile” è la parola chiave. Io non sono un volontario, ma mi educo a diventare un corresponsabile, cioè partecipo della missione pastorale della Chiesa, divento un operatore pastorale: non uno che ha tempo da perdere, ma uno che partecipa della cura che Gesù e la Chiesa hanno di conoscere, di amare, di dare la vita, di dare il Vangelo.

2c. Conclusioni

Concludo:

Alcuni punti sintetici

  1. È più importante quello che sono di quello che dico

  2. Quello che dico è per me, innanzitutto, occasione di conversione

  3. Da una mentalità funzionale a una mentalità pastorale

  1. Da un’arrampicata in solitaria a una cordata: quando devo guardare gli altri

  2. Da un educare a me a un educare alla fede della Chiesa: “mi sento”, “mi pare…”

  3. Dalla presunzione di sapere all’umiltà di imparare: “sono le solite cose…”

  4. Dalla paura di esporsi al coraggio di essere mandati: a chi tocca?

  5. Da un educatore parrocchiale a un educatore “diocesano”: “da noi si è sempre fatto così!”

  6. Da un occupare un posto a svolgere un servizio: quando ho voglia di lasciare

  1. La cura degli elenchi

  2. L’agenda dei compleanni; cfr. “Educare ancora” pag. 35.

Le conclusioni sono raggruppate in tre settori.

Il primo è più di natura personale, spirituale, quindi lo comprenderete meglio domani, con don Gigi, credo.

È più importante quello che sono di quello che dico: l’educatore è; non si fa l’educatore, si è educatore.

Quello che dico è per me, innanzitutto, occasione di conversione: quando io parlo del Vangelo, della Chiesa, dei sacramenti, della vita morale, del Credo, queste cose evangelizzano me ancor prima che gli altri e devo sentire l’occasione di preparare il momento di gruppo, il momento educativo, il momento di catechismo, come una straordinaria occasione di conversione per me. Io mi devo lasciar interpellare, educare io stesso da quel vangelo che preparo. Guai se divento un mestierante! « Devo fare il mio catechismo, bene, basta, non me ne frega niente ».

Da una mentalità funzionale, “io faccio il mio catechismo”, a una mentalità pastorale: divento, con il mio prete, con la Chiesa, corresponsabile del vangelo, della missione di Gesù, della Chiesa nel mondo.

Secondo blocco di attenzioni:

È importante che l’educatore non sia l’arrampicatore in solitaria, il “geniaccio” della catechesi, della pastorale, quello che le inventa più belle degli altri. Questo vale soprattutto per le mamme, che ogni anno, quando si arriva alla comunione, devono fare sempre meglio degli altri, e quindi ci vogliono più fiori, più offerte, più confetti, più biglietti… Eh, ma calma! Chi sei? Cosa vuoi? Tu non sei la catechista che deve fare “il meglio”, sei semplicemente una che fa il suo servizio, punto e basta. Lo fai come gli altri, se devi dire qualcosa in più lo dici, ci si confronta, e si decide. Dall’arrampicata solitaria alla cordata: siamo insieme, è importante guardare gli altri.

Attenzione a quando comunicate le vostre esperienze. È chiaro che uno deve dire se stesso: parla anche di se stesso, quando comunica il Vangelo, ma guai a fare diventare le tue esperienze misura della verità, per cui tutti devono fare come te, devono pregare come te, devono commuoversi come te davanti alla stessa cosa. Attenzione, uno deve comunicare se stesso, ma non deve far diventare se stesso misura del Vangelo.

Se uno ha la percezione della bellezza del Vangelo, della complessità della vita dei ragazzi, dei giovani oggi, non può mai dire «tanto ormai sono già formato, tanto io lo so già, sono le solite cose ».

Quando alla fine dell’anno ognuno deve fare il quadro, occorre farsi avanti se si ha il coraggio di adempiere a quello che si sta vivendo nella propria fede, quindi non bisogna aver paura di esporsi e di lasciarsi mandare.

Attenzione a queste parole: « Da noi si è sempre fatto così, tanto qui le cose vanno in questo modo ». Ecco, l’importante è camminare insieme. Anche perché, quando sei dentro una situazione spesso non hai la libertà di guardare con oggettività, per cui il seminarista che viene da fuori magari dice: « Ma non ti accorgi di questo? », perché lui viene da fuori, ha uno sguardo diverso su quello che c’è dentro. Tante volte anche all’educatore della parrocchia fa bene uscire, prendere una boccata d’aria, vedere come gira il mondo, capire che tutto il mondo non è Verghera. Questo respiro fuori della parrocchia si chiama decanato, si chiama diocesi, per cui se il progetto del Vescovo è quello di una Chiesa costruita così, questa deve essere la mia idea di Chiesa che poi si declina a Verghera.

Quando uno dice: «No, basta, non faccio più catechismo, non faccio più l’educatore », che cosa sta dicendo? Che ha occupato il posto e adesso lo libera, oppure ha a cuore un servizio e dice: « Io adesso capisco di non essere più in grado, non ho più tempo, non ho più energia». Che cosa mi fa decidere di lasciare? Mi sono preoccupato che ci siano altri che possano prendere il mio posto? O sono sempre io a decidere con le mie voglie, i miei capricci, legittimi, i miei disegni, legittimi. « Occupo un posto; adesso basta, lo libero; si arrangino ». Oppure: « Ho fatto un servizio, un servizio importante, annunciare il Vangelo ai ragazzi; adesso mi preoccupo che altri lo possano condividere, che altri possano continuare questo servizio ».

Infine due “asterischi” molto semplici, che però possono aiutarvi; voi educatori dovete imparare ad avere questo due attenzioni.

L’attenzione agli elenchi. Non so come facciate ad organizzare catechismo voi: si va all’anagrafe parrocchiale o del comune e si dice: « Prendiamo questi ragazzi, di prima media », e si spedisce la lettera; Oppure si sa che vengono a catechismo. Ecco, questi elenchi, fatti all’inizio dell’anno, teneteli presenti: ci sono ancora quei ragazzi, perché quelli che vengono a catechismo non sono tutti quelli che esistono. Ricordiamoci che siamo in minoranza, noi appartenenti alla Chiesa, ormai; non possiamo dire che siamo in tempo di missione e poi far finta che tutto il mondo sia quello che viene all’oratorio. Questo vale anche per gli adolescenti e i giovani. Ogni tanto abbiate il coraggio di guardare e dire « Okay, io a questi ragazzi propongo il catechismo, e a questi altri? ». Come posso arrivare, se manca la modalità, se sono quelli che vengono soltanto alla messa, soltanto a catechismo, soltanto alla squadra di calcio; e poi, non posso lanciare delle iniziative per cui altri possono entrare in contatto?

L’agenda dei compleanni: è importante che ciascuno di voi segni il compleanno dei propri ragazzi. Il giorno del compleanno, per un ragazzo, è importante, e capire, sapere che il proprio educatore si rende presente – perché telefona, manda un bigliettino – fa maledettamente bene ai ragazzi.

Io ho fatto un’estate durante la quale gli adolescenti di Solbiate mi hanno fatto impazzire perché sono una genia di disgraziati. Sono venuto a casa, dopo aver sbraitato senza ottenere niente, ho preso un pacco di cartoline, e mi sono messo a scrivere a ciascuno, inventando una frase. Be’, ha ottenuto di più una cartolina così che io sbraitando per due mesi. Infatti tornando mi hanno detto: «Ah, grazie, don, la cartolina», e abbiamo cominciato a parlare. Urlando per due mesi, niente.

Aver cura dei rapporti personali, ovvero entrare nella vita personale dei ragazzi, soprattutto quando diventano un pochino grandi. Non pretendete che da un incontro di catechismo cambi la vita, ma se un ragazzo intuisce che tu sei suo alleato nei momenti belli della sua vita - e ci sono anche dei momenti brutti nella vita di un ragazzo - se tu ti fai presente, ti prendi cura, non fai il catechista e l’educatore della parrocchia, ma diventi il suo catechista, il suo educatore, il suo compagno di viaggio; in questo modo si aprono orizzonti sempre nuovi.

A questo punto volevo leggervi e concludere con una bella pagina di “Educare ancora”, che l’Arcivescovo cita da un discorso del Vicario Generale che era allora mons. Corti, l’attuale Vescovo di Novara:

« Vogliamo fare un oratorio che tenga conto della situazione attuale dei ragazzi; bisognerà che l’oratorio realizzi in mille maniere un’attenzione straordinaria per questa età (parla dei ragazzi del dopo cresima) che è poi l’età che coincide con la cresima. Noi li dobbiamo considerare a uno a uno, questi ragazzi, e dobbiamo dire: in questo momento fare l’oratorio vuol dire che la parrocchia garantisce a questi ragazzi e a queste ragazze, anzi, a ciascuno di loro, di avere un punto di riferimento personale, che non si dimentichi di nessuno di loro; per cui, se un ragazzo non si vede, qualcuno sa perché, qualcuno va a vedere, parla con i genitori, parla con il ragazzo, che si sente dunque interpellato, seguito, amato, capito, sostenuto, magari anche richiamato, accolto, incoraggiato, mai anonimo ».