4. La spiritualità dell'educatore

  • Posted on: 22 November 2014
  • By: mdmuffa

Intervento a cura di don Gianluigi Musazzi, allora rettore della Scuola Vocazionale di Villa Perego

Io abito qui da quattro anni e sono direttore di questa Scuola Vocazionale; ma cos’è una Scuola Vocazionale? Si tratta innanzitutto di una scuola media, e voi sapete che la scuola media ha due obiettivi: il primo è quello di conoscere se stessi, ed il secondo è quello di orientare un cammino, una strada, un indirizzo di studi. La scuola vocazionale prende questi due obiettivi e li dilata, li amplifica dal punto di vista cristiano; il lavoro che viene fatto dai ragazzi sull’orientamento, noi lo chiamiamo discernimento, cioè non solamente “che cosa piace a me”, ma anche “che cosa desidera il Signore”. Sapete che non è una cosa semplice, perché vuol dire mettere al centro non se stessi, ma mettere al centro Dio. E allora questo lo si può fare a vent’anni, qualcuno lo fa a trent’anni, qualcuno lo fa a dodici anni, perché il Signore chiama a tutte le età; voi capite che è molto importante questo: avere fiducia nello Spirito, e non decidere noi quando, come e in che modo il Signore viene da noi. E allora ecco perché sorge una Scuola Vocazionale come questa, che non è un seminario ma non vuole essere neppure un collegio: non è una scuola qualsiasi, ma è una scuola dove viene presentata la vita come vocazione. È fatta solo per i maschi, in questo momento; questo perché la vocazione delle ragazze matura qualche anno più tardi, mentre ai ragazzi capita che nella preadolescenza abbiano già delle grosse intuizioni da questo punto di vista. Le ragazze un po’ meno: ne hanno, ma hanno anche tutti i loro cammini diversi; una ragazza decide a 20 anni, non a 13, un ingresso in noviziato, mentre per i ragazzi abbiamo anche il percorso del seminario; allora la scuola vocazionale è molto in sintonia col seminario.

Prima questo luogo era anche un seminario, dal 1972; precisamente dal 1969 è stata donata tutta questa proprietà, che apparteneva ai conti Perego, all’Arcivescovo di allora, il cardinal Colombo; nel 1972 il cardinale decise quindi di farne una sede per il Seminario Minore. Allora esisteva questa parte, che è la parte originaria della villa, e che è stata poi allungata con l’altra parte, imitando lo stile della villa, dove c’è la sala giochi e dove ci sono le aule, all’interno di questo parco, ed il complesso è rimasto seminario dal 1972 fino al 1988, anno in cui viene chiuso il Seminario perché non c’erano più richieste di ragazzi che intendevano fare questo percorso.

Nel 1991 riprende questa scuola; prima di me c’era don Claudio Silva, mentre ero a Casatenovo, dove Emanuele ha le sue origini; ho fatto lì il coadiutore quando sono diventato prete nel 1987.

Oltre a fare il direttore qui sono anche responsabile della pastorale vocazionale della zona di Lecco, quindi non ho parrocchia, volutamente, ma il mio lavoro consiste nell’accompagnare adolescenti, famiglie soprattutto, perché i ragazzi necessitano in modo indispensabile il rapporto con la famiglia, dato che il lavoro coi ragazzi è un lavoro da fare anche coi genitori. Quindi famiglie, adolescenti, giovani a cui faccio accoglienza quando vengono, mentre di solito non tengo io le relazioni, tranne qualche volta, come questa. Al sabato e alla domenica, poi, vengono dei gruppi, per momenti di ritiro, e anche di convivenza, di fraternità.

Vi propongo ora un testo sulla spiritualità dell’educatore (Gv 3, 25 - 30).

25Nacque allora una discussione tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo la purificazione. 26Andarono perciò da Giovanni e gli dissero: « Rabbì, colui che era con te dall’altra parte del Giordano, e al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti accorrono a lui ». 27Giovanni rispose: « Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: “Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui”. 29Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. 30Egli deve crescere e io invece diminuire ».

La figura che intendo presentare è dunque quella di Giovanni il Battista, prendendo spunto anche dal cammino “Sulle rive del Giordano” e dal “Rinnovo del Patto Educativo”.

Qualche tempo fa la nostra diocesi ha dedicato un anno agli educatori, dicendo: «Sentite, educatori, dobbiamo imparare davvero a trasmettere il mistero di Cristo, a trasmettere la nostra fede attraverso anche un ministero, un ministero laicale»; per far questo il Cardinale ha pensato: «Bene, prendiamo come punto di riferimento la figura di Giovanni il Battista, colui che indica la via». Sulle rive del Giordano la gente accorreva chiedendo « Chi dobbiamo seguire? » e Giovanni rispondeva dicendo: « È lui! Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo ».

L’idea sarebbe che l’educatore è sulle rive del Giordano, pronto quindi a indicare la strada, tant’è vero che nel Vangelo di Luca, nel capitolo terzo, diverse folle interrogavano il Battista, dicendo « Che cosa dobbiamo fare? ». E allora lui rispondeva: « Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi non ha da mangiare faccia altrettanto… vennero anche dei pubblicani e chiesero “Maestro, che cosa dobbiamo fare?” ». Ecco, tutte le diverse categorie di persone vengono da Giovanni il Battista, che dava indicazioni. Ma chi è Giovanni il Battista se non l’educatore?

Allora “sulle rive del Giordano” ha proprio questo significato ed ogni anno la nostra diocesi chiede ai catechisti, al termine dell’anno – non all’inizio: all’inizio è dato il mandato, cioè in una domenica di ottobre la parrocchia chiama e dice “Sentite, voi siete incaricati dalla comunità di annunciare e trasmettere il Vangelo – di rinnovare il patto educativo; questo rinnovo viene fatto di solito in un sabato, durante una veglia, in cui gli educatori vengono convocati; l’anno scorso mi pare che sia stato fatto a Monza.

Del Vangelo di Giovanni ho scelto questo riferimento, al capitolo terzo. (legge fino al versetto 29). Vedete, i discepoli del Battista sono un po’ presuntuosi, eppure Giovanni li aveva messi al corrente, li aveva messi all’erta: « Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui ». Bella, questa espressione; potete prenderla come riferimento per il vostro compito educativo: non siamo noi i salvatori, e se qualcosa va male, non dobbiamo lamentarci con Gesù. Gesù Cristo ha già salvato il mondo! Quindi quelle lamentele, quei dissidi che nascono tra educatori, quelle forme di litigiosità o anche di mancanza di comunicazione… ricordate che « non sono io il Cristo ». (riprende la lettura e arriva alla fine) Sottolineate bene questo « esulta » e anche quest’ultima frase « Egli deve crescere e io diminuire ».

Abbiamo quindi detto che Giovanni il Battista è il modello di colui che conduce altri a Gesù, dunque Giovanni il Battista è un po’ il modello dell’educatore. Ecco, tutti voi avete delle responsabilità educative, certo, ma è importante che noi andiamo a riflettere su noi stessi. Molte volte abbiamo delle missioni, e a volte ci riconosciamo un po’ riusciti, oppure mancati, mentre dobbiamo sentirci persone chiamate a prendere una forte coscienza del dono di Dio che ci è stato dato. Prima ancora di valutare o di fare un bilancio sulla nostra missione educativa, dobbiamo sapere che il Signore ci ha chiamato. Ricordate quando i discepoli tornano dopo la prima missione e dicono « Maestro, abbiamo visto il demonio sconfitto, abbiamo saputo curare, guarire…». E sapete Gesù cosa dice? « Non siate preoccupati del vostro successo o insuccesso; la vostra gioia sia nel fatto che siete stati chiamati alla salvezza ». Non importa se avrete successo oppure no, perché i vostri nomi sono scritti nel cielo: questa è la vostra gioia, la gioia di essere stati chiamati. Quindi occorre capire la nostra relazione con Dio all’interno del nostro essere educatori. Ecco allora la spiritualità dell’educatore: prima di fare delle cose dobbiamo essere, prima ancora di dire dobbiamo vivere questo cammino di fede.

Questo episodio è poco conosciuto, anche perché non è mai indicato nel lezionario, sia feriale che festivo, cioè non viene mai letto; il brano presenta una tensione pastorale, quasi un’invidia tra i discepoli del Battista e quelli di Gesù. Giovanni aveva faticato ad educare i suoi discepoli, aveva faticato a portare con sé dei seguaci, e ora Gesù glieli ruba, gli fa concorrenza. La risposta di Giovanni è straordinaria ed è una straordinaria lezione educativa. Ecco, il versetto 30 è l’atteggiamento di un educatore che è scavalcato, che è superato e proprio perché è superato è portato a riflettere sul vero senso del suo impegno. Quando siete in difficoltà o avete qualche delusione dovete andare alla radice della vostra chiamata. Cosa vuol dire per me essere educatore? Giovanni risponde: « Egli devo crescere. Io devo diminuire »; è una frase che, una volta ascoltata, non si dimentica mai più.

Il brano che ho scelto mostra nel suo insieme una tipica situazione di dove ci sono delle concorrenze, cioè dei concorrenti nel campo dell’educazione: da una parte c’è Giovanni Battista, dall’altra c’è Gesù; entrambi attirano gente ed entrambi fanno discepoli; uno tuttavia ha cominciato prima dell’altro, ed è Giovanni il Battista, mentre il secondo comincia dopo e prende qualcosa del metodo che aveva usato Giovanni: « Colui che era con te… sta battezzando ». Vedete? Gesù usa lo stesso stile, lo stesso metodo, e questo – che è un gesto di purificazione ed era tipico del tempo e dei gruppi che allora vivevano – fa scatenare delle gelosie. Teniamo presente che si scatenano tra i discepoli, non tra Gesù e il Battista, ma tra i discepoli.

Vedete, sotto questo episodio ci sta il problema del saper essere distaccati da se stessi, dai propri successi e dai propri discepoli. Ecco, Giovanni Battista ha questa capacità di prendere le distanze. Ciò che deve stare a cuore al discepolo è che noi dobbiamo aiutare l’incontro con il Maestro, non cercare le nostre gratificazioni.

Io, per esempio, mi ricordo molto bene che appena sono arrivato a Casatenovo ho trovato tanti educatori che “facevano le proprie cose”; non avevano colpa loro, perché il prete che mi precedeva, il coadiutore, era arrivato quando aveva 29 anni e quando sono arrivato io ne aveva già 63. Probabilmente, gli educatori cos’hanno fatto? Facevano quello che potevano, però ciascuno a modo suo, ciascuno “faceva le sue cose”: uno entrava in parrocchia con la Bibbia e diceva « Ah, quest’anno facciamo il libro di Giuditta »; un altro diceva « No, facciamo il libro dell’Esodo »: non c’era la catechesi, cioè non c’era un itinerario; ognuno faceva quello che credeva.

Io credo che sia molto importante staccarsi da sé. Cioè, dire « Io ho questo pallino », va bene, ma i ragazzi devono compiere anche un cammino di fede, devono fare un percorso graduale e questo è dato anche dagli itinerari della fede che il nostro Vescovo ci ha consegnato: sappiamo che questi sono il frutto di riflessioni di psicologi, di teologi, pedagogisti, fisiologi, eccetera. E allora dobbiamo avere la fede, dobbiamo far questo atto di fede, altrimenti facciamo lo nostre “chiesuole”. Guardate che oggi c’è un soggettivismo dilagante, dove al centro c’è il soggetto, non come persona, ma come gruppo, come movimento, e nella fede di questo gruppo o movimento si fanno itinerari propri, che non sempre sono conformi al cammino della Chiesa. Questo papa, al proposito, è molto saggio, dicendo: « In questi tre anni, tutte le comunità pongano al centro Gesù Cristo, lo Spirito, il Padre. È vero che non è mai stato fatto, però aiuta il cammino ».

Vediamo subito la provocazione (versetto 26): « Colui che era con te ». Potremmo dire: colui che ti deve tanto, colui che tu hai accolto, che hai lanciato, ora ti sta rubando il metodo e anche il pubblico. E come reagisce Giovanni? Proprio proclamando il suo distacco da sé ed il suo abbandono. Rispondendo col versetto 28 dice: “Io prendo le distanze da me stesso, dal mio orgoglio, dalla mia presunzione, e mi abbandono a Dio”. Qui afferma come i discepoli non sono suoi, ma Dio glieli ha dati, e allora è Dio che veramente educa il suo popolo, mentre noi siamo solo degli strumenti, ed è lui che dà i doni. E vedete, questa cosa Giovanni l’aveva già detta una volta, proprio al versetto 28.

Anche qui è molto importante che la gente e i ragazzi che ci vedono capiscano che è per un altro che noi lavoriamo: non dobbiamo attaccare le persone a noi.

A me è capitato varie volte, in questi quattro anni, di accompagnare dei ragazzi in seminario, o in noviziato; soprattutto per quelli più piccoli, i genitori temevano che fosse più un legame al sottoscritto; invece, è molto importante che ogni educatore leghi questi ragazzi con Dio, e quando c’è questo legame con Dio tutto il resto diventa molto più trasparente; tutti i dubbi, tutte le paure vengono a crollare, ad essere travolte. Quindi è per un altro che io lavoro come educatore, è per un altro che io mi impegno, e voi che siete i miei discepoli dovete saperlo - dice Giovanni il Battista - e non strumentalizzarmi: capite che dietro questi discepoli c’era il desiderio di suscitare dentro Giovanni un orgoglio, una presunzione verso Gesù che lui aveva già superato, come educatore.

E porta allora un paragone molto bello, al versetto ventinove. Sentite: possiamo chiamare l’educatore “l’amico dello sposo”. Ma chi sono i tre personaggi, la sposa, lo sposo, e l’amico dello sposo?

È facile riconoscere lo sposo nel Signore: così Dio era chiamato nei testi antichi della Bibbia, dal profeta Osea, Ezechiele, Geremia; anche nel Nuovo Testamento Gesù è chiamato “lo sposo”: « Finché c’è lo sposo i miei discepoli non devono digiunare », ricordate? Gesù si presenta come lo sposo.

E la sposa chi è? La sposa è il popolo del Signore, è la Chiesa, sono i ragazzi con cui noi abbiamo a che fare, è la Chiesa che prega, è la Chiesa che ama. Possiamo dire che la sposa è ogni persona che entra in cammino, in comunione con Gesù. E proprio il Signore è venuto a sposare l’umanità; Cristo è venuto per sposare, per unirsi.

E allora fermiamoci su chi è l’amico dello sposo: « L’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta (chi? ascolta lo sposo, ascolta la sposa), esulta di gioia alla voce dello sposo ». Vedete, Giovanni il Battista è l’amico dello sposo, l’educatore è l’amico dello sposo, che prepara la sposa all’incontro. L’amico dello sposo non è quello che si porta via la sposa.

Ancora, di ogni educatore viene detto che « è presente ». La presenza. In oratorio bisogna esser presenti: io non affidavo nessun ragazzo a chi non era presente. Dopo, certo, uno deve studiare, deve fare tante altre cose nella vita, però c’è anche uno spazio… uno deve anche innamorarsi, deve anche sposarsi, deve anche frequentare la sua morosa eccetera, però voi capite che ci sono degli spazi: se uno vuole essere educatore, deve essere presente, deve ascoltare la sposa, quindi deve ascoltare i suoi ragazzi, deve anche essere disponibile.

“È presente”, “ascolta”, e poi “esulta di gioia”. Anche questo riferimento alla gioia è fondamentale: l’educatore non è soltanto soddisfatto di avere compiuto il proprio dovere, ma gioisce, deve gioire perché ama il suo Dio, perché lo mette al di sopra di tutti i suoi pensieri. Io vedo che a volte gli educatori sono preoccupati di fare le loro cose, ci sono responsabilità che girano, si creano delle tensioni, che si avvertono nell’aria, come se fosse elettrica; questa cosa non deve accadere. Il prete, oppure qualcun altro, deve dire « Vieni qua; ma perché ti comporti così? ». È molto importante, perché ci deve essere proprio il clima indicato da Gesù, che ha detto: « Vi conosceremo dall’amore che avrete gli uni per gli altri ». Non dobbiamo ritenerci onnipotenti, onnipresenti, come se tutto dipendesse da noi; molte volte viviamo come se Dio non avesse alcuno spazio, perché tutto è pianificato dai nostri progetti, dalle nostre iniziative. Ecco, ricordiamo la gioia.

Il Battista comprende di essere al termine della sua missione, ed ha amato molto i suoi discepoli, ma ama molto di più il Signore; non è legato alle persone che ha formato, ma anzitutto è “amico dello sposo”: ascolta la sposa, è presente, ed esulta di gioia non per la sposa, ma per la voce dello sposo. È molto importante che un educatore abbia presente tutto questo.

Infine tiro quattro conclusioni, che sono poi quelle dell’Arcivescovo, molto interessanti, e poi faccio io delle considerazioni in base sulla mia esperienza.

  1. Nessuna persona o gruppo è difeso dalle invidie, dalle gelosie che nascono tra educatori, quindi nessuno è esente dal rischio della concorrenza della gelosia. Questo dobbiamo saperlo, perché lo sperimentiamo in noi e negli altri, e dobbiamo anche tenerlo a bada, dobbiamo anche considerarlo, vigilarvi , perché l’invidia e la concorrenza sono un fatto documentato anche dalle prime comunità cristiane. Vi ricordate Barnaba e Paolo? Avevano una grossa competizione tra di loro. Voi sapete che Barnaba va a chiamare Paolo, dopo che era rimasto per 14 anni a Tarso a costruire delle tende, perché, una volta convertito, Saulo non viene subito accolto dalla comunità dato che tutti dubitavano di lui. È Barnaba che da Antiochia lo va a chiamare, dicendogli: « Vieni, abbiamo bisogno di te ». Nasce così una grossa amicizia tra Barnaba e Paolo, ed iniziano i primi viaggi insieme a Giovanni detto anche Marco, probabilmente l’evangelista. A un certo punto, durante un viaggio nasce una discussione tra Paolo e Barnaba per il loro amico Marco, e questa discussione li fa dividere, tant’è vero che, dopo, di Barnaba non sappiamo più niente, mentre Paolo continua la sua missione. Come si può giustificare questa cosa? Col fatto che siamo tutti umani, e se ci sono state anche tra questi due grandi evangelizzatori delle piccole diatribe, sono dovute ad alcune incomprensioni che hanno portato una lacerazione nell’amicizia; questo non è venuto però a scapito della missione che è continuata, invece. Pensate anche alle rivalità che c’erano anche nella comunità di Corinto, dove alcuni dicevano « Io sono di Paolo », e un altro « Io sono di Apollo », « Io di Cefa », eccetera. Paolo, nella lettera ai Filippesi, al capitolo secondo, versetto tre, dice: « Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria ». Educare quindi significa anzitutto superare le gelosie e le possessività.

  1. Da questo brano risulta che Dio solo possiede il suo popolo; è Dio il vero e grande educatore (versetto 27). Chi si lascia prendere dalla possessività, dalla gelosia educativa, diseduca, perché non riconosce il primato di Dio. Guardate che questo è molto importante nelle nostre comunità, bisogna riconoscere che ogni ragazzo, ogni ragazza, appartiene a Dio; com’è consolante questo pensiero nei momenti difficili, quando ci sentiamo educatori mediocri o falliti! È molto importante ricordarci che la persona che ci fa disperare e che vorrei aiutare a crescere è di Dio, appartiene a Lui, è Lui che la educa attraverso il mio umile servizio. Noi siamo servi, amici dello sposo.

  1. Avvicinare altri a Gesù dà gioia: quando il nostro compito di educatore è compiuto ed è vissuto con disinteresse, è fonte di gioia; educare deve dare gioia. Avvicinare altri a Gesù deve consolare, riempire di gioia la nostra vita. Bisogna avere questa capacità di distacco e questo ci deve far crescere come persone, come educatori; di conseguenza bisogna educare in un clima di gioia. È fondamentale: noi qualche volta lo facciamo come mestiere, ma il nostro deve essere un ministero, anche se oggi, a dire la verità, non si deve più chiamare con questo termine, “ministero”, perché è uscita una disposizione dalla Santa Sede, dalla coordinazione per i laici, secondo cui non si può più parlare di “ministeri laicali”, ma di “collaborazioni laicali” – si chiamano così, adesso – mentre prima era tutto un ministero. Adesso si sta attenti perché la parola “ministero” fa riferimento a un sacramento, dato che il rischio è davvero che dopo diventiamo tutti consacrati; invece si parla di “collaboratori laicali”. È una notizia uscita la settimana scorsa. Comunque, tornando a noi, tanto più educhi con gioia, tanto più ricevi la gioia.

  1. «Egli deve crescere e io invece diminuire ». Perché Gesù possa crescere in coloro che educo, io devo diminuire; è una parola dura, questa, che torna spesso nei vangeli: « Chi perde la sua vita, la ritroverà, chi vuol salvare la sua vita, la perderà ». Diminuire significa anzitutto diminuire di fronte a Gesù: Tu solo sei grande, Tu devi crescere, e allorché sarò una sola cosa con Te, sarò grande poiché Tu lo sei. Allora dovremmo essere capaci di diminuire con gioia anche di fronte a coloro che educhiamo; vedete: è l’opposto del plagio. Quando avviene un plagio? Quando l’educatore cresce e la persona educata rimpicciolisce: un educatore fa dipendere l’altro da sé, il quale vive questa dipendenza, e non l’autonomia. L’educazione è il contrario: colui che è educato cresce, e colui che educa si ritira; questa è l’educazione. Possiamo vederlo anche nelle famiglie, quando c’è un’eccessiva possessività che impedisce la crescita dei propri figli: ci sono delle mamme possessive, o dei papà – un po’ meno; genitori che hanno un sogno, un progetto, e che vogliono imporlo ai propri figli, pur se con buone intenzioni, mentre è la crescita delle persone che va cercata. Ci sono tanti segnali, spie che dimostrano che questo ragazzo non è cresciuto; perché? Perché i genitori hanno eccessivamente soffocato la sua crescita e non l’hanno reso autonomo. Egli deve crescere ed io diminuire: questo è il vero compendio di ogni pedagogia che vuole portare al Cristo. È il principio fondamentale di ogni vera fatica apostolica, di ogni vero ministero, di ogni vero servizio alla propria comunità.

Dopo queste riflessioni intendevo cogliere cosa voleva dire “Spiritualità dell’educatore”; certo, questo è già tutto in riferimento alla spiritualità, però, ricordiamoci che un educatore che non prega non può essere amico dello sposo; deve conoscerlo, quindi, avere dei momenti di preghiera nella propria giornata – anche non tantissimi – ma ci deve essere un momento della mia giornata in cui mi fermo a pregare.

Ancora, il riferimento ai sacramenti: un educatore deve nutrirsi dei sacramenti. La Messa – magari facciamo una Messa a settimana, un po’ significativa, una Messa feriale, o al sabato mattina; può capitare che una volta non si vada, però… L’Eucaristia, la Riconciliazione, sono molto importante. Una volta al mese, vivere il Sacramento della Riconciliazione, è indispensabile. Una volta al mese quando uno vive una vita abbastanza ordinata, però mi ricordo che, in alcuni periodi, alcuni giovani avevano bisogno di confessarsi ogni 15 giorni. Non è una regola, però una volta al mese – 12 volte in un anno – se siamo nel cammino ordinario, mi sembra il minimo.

La direzione spirituale: io so che il vostro parroco è molto bravo, e penso che o il vostro parroco o un prete, in decanato, vi possano aiutare, per farsi conoscere; ma non da uno di passaggio, invece da una persona di riferimento, in modo che, se voi fate questo lavoro su di voi, poi potete farlo sugli altri. Potete proporre la direzione spirituale a dei vostri ragazzini, perché la direzione spirituale non è la confessione che necessariamente richiede la presenza di un ministro ordinato, ma va bene anche la figura di un laico. A Casatenovo c’era una ragazza, molto brava, che veniva da me a fare direzione spirituale e poi la faceva ad alcune ragazzine; è molto importante.

Poi, raccomando di trovare qualche momento di ritiro personale, durante l’anno; non necessariamente come questo, dove venite tutti insieme, anche da soli. Non so, potete andare all’Eremo di S. Salvatore, magari in estate. Ci sono dei giovani che, in treno vanno ad Erba, con lo zaino, e da lì fanno 3 – 4 km a piedi per arrivare all’Eremo. C’è bisogno solo della fede, fede e basta. Cioè: uno non ha la macchina, si organizza, ma bisogna avere fede. Si possono avere dei momenti di ritiro personale, durante l’anno, o magari dire « Io, un sabato al mese, lo dedico a questo ».

Devo anche amare profondamente la Chiesa, che è la sposa, i documenti del Vescovo, il mio pastore, il mio parroco, le suore con tutti i difetti: ne abbiamo tutti. Gesù ha chiamato Pietro: anche lui ne aveva di suoi, quindi non dobbiamo scandalizzarci. O crediamo nell’incarnazione di Dio, cioè che Dio si è incarnato ed ha voluto assumere la nostra condizione, oppure facciamo una Chiesa “di perfetti”; ma in una Chiesa di perfetti, chi trova posto? Un’élite, no? Quindi, tenere presente di amare il proprio prete, il proprio parroco.

Fondamentale è essere presenti, amare i ragazzi, i giovani, con un’attenzione per le vocazioni: anche questa vostra missione educativa è una vocazione. I ragazzi devono avvertire, incontrandovi, che c’è una dedizione che voi esprimete con il vostro servizio. Quando noi diciamo che la pastorale giovanile è intrinsecamente vocazionale, intendiamo questo: tutti abbiamo una chiamata da riconoscere nella nostra vita; non solamente quello che desideriamo, ma che cosa il Signore desidera da noi.

Capovolgere: non mettere al centro noi stessi, ma mettere al centro la volontà di Dio. O crediamo in questo, crediamo che Dio vede e vuole il nostro bene più di quanto noi desideriamo, oppure iniziamo a dire che Lui è un concorrente nei nostri confronti, quindi quello che vuole Lui è invece ciò che mi reca difficoltà, disagio. C’è un atto di fede nei confronti di Dio, e poi, chiaramente, uno pensa: « Ma la vocazione non sarà solo quella di diventare suora, di diventare prete? ». Certo, e se uno dice: « Caspita, io sento di amare il Signore andando insieme al mio ragazzo, alla mia ragazza », questa è la tua vocazione. Tuttavia, escludere a priori che il Signore ti possa chiedere la vita al servizio suo, mi sembra che non sia cristiano, che non sia da credenti. Io credo che i nostri educatori almeno una volta, un anno nella propria vita lo debbano dedicare a questo, al cammino di discernimento vocazionale. Certo che se uno dice « Io sono già legato a questo ragazzo, a questa ragazza », non deve fare questo anno adesso, però se è nella condizione di essere libero – libero dagli affetti, da un cammino vocazionale già percorso, non ancora fidanzato…

Per esempio, prima questo cammino era in riferimento al “Cenacolo”, che era proprio un itinerario di spiritualità per giovani dell’Azione Cattolica che desideravano appunto verificare la domanda circa il senso della propria vita. Si può dire: « Io non sono ancora “compromesso” con nessuno, forse sono nella condizione di potermi chiedere se il Signore non mi domanda anche tutta la vita” ». Io lo dico sempre ai giovani, perché poi queste cose vengono fuori a 25, 26 o 27 anni, e si pensa: « Quanto tempo ho perso! ». Dai 18 ai 25 anni basta dedicare un anno.

Io sto seguendo un ragazzo, che mi aveva chiesto di fare un discernimento monastico ed ha fatto un anno di contatto, di cammino accanto a questa comunità monastica. L’anno successivo ha trovato una splendida ragazza e mi dice: « Don, adesso cosa faccio? ». Gli chiedo « Dove va il tuo cuore? In monastero, o con questa ragazza? ». « Ti dico la verità, don, in questo momento va con questa ragazza ». « Allora tu devi fare questo percorso. Se tu vedi che questo cammino di fidanzamento, di amicizia, di conoscenza prende consistenza, vuol dire che il Signore ti chiede di fare questo percorso e tu sei sereno con te stesso… Certo che se quando vedi un monaco non capisci più niente, nel senso bello della parola, cioè dentro di te c’è questa risonanza, questo riferimento continuo, allora calma, vuol dire che questa ragazza qui non è proprio il senso della tua vita ». Questo è un discernimento vocazionale, un cammino, e richiede la lettura, la riflessione di sé e di quello che si ha dentro. Quindi è necessario amare le vocazioni, perché i ragazzini che avete lì possono diventare seminaristi o novizie, capite? Non dovete solamente pensare: “Devo fare questa paginetta, devo comunicare loro queste cose”, ma dietro c’è tutta una storia, c’è tutta una famiglia, ci sono le proprie aspirazioni, i propri desideri, il proprio futuro.

E poi bisogna imparare a lavorare in sintonia: in sintonia vuol dire in équipe e quindi cercare collaboratori e collaborazione tra di voi. Così saremo veramente figli di Dio e non otterremo, come diceva S. Bernardo di Chiaravalle, « tre categorie: gli schiavi, i mercenari, e i Figli di Dio: gli schiavi fanno le cose perché altrimenti hanno paura di essere puniti da Dio, quindi non sono liberi; i mercenari lo fanno di mestiere, e non so che interesse abbiano, di gratificazione oppure di promozioni umane o altro ancora; i Figli di Dio, invece, sono coloro che sono chiamati a vivere la propria dedizione agli altri”.

Possono sorgere delle domande:

  1. Che cosa dico a Dio, che è il primo educatore? Che cosa chiedo per me? Che cosa chiedo per i miei ragazzi e le ragazze che educo e che in realtà sono suoi?

  2. Mi sento un educatore riuscito, mediocre, come vivo tale sensazione? Sono consapevole che l’opera educativa, la missione che mi è stata affidata non è mia ma sua? Come prendo le distanze da me, dai miei stessi successi o insuccessi educativi per acquistare libertà? Mi abbandono a Dio, che è il vero e grande educatore?

  3. Quando educo provo la gioia, sono davvero nella gioia? Posso anch’io, come Giovanni il Battista, dire: « la mia gioia è compiuta » (Gv 3, 29) ? Sono veramente un amico dello sposo?

A proposito della possessività educativa, sono capace di tirarmi indietro quando occorre, oppure mi ritengo totalmente e talmente necessario da non dovermi mai tirare indietro, e quasi anche da creare qualche schermo, qualche ostacolo perché questo ragazzo, questa ragazza possa incontrare il Signore?

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