2a. Uno sguardo contemplativo: "Dio educa il suo popolo"

  • Posted on: 22 November 2014
  • By: mdmuffa

Uno sguardo contemplativo: “Dio educa il suo popolo”

Guardiamo ad alcune caratteristiche dello stile di Dio che educa. Si tratta di un progetto educativo:

  1. Personale e insieme comunitario;

  2. Graduale e progressivo;

  3. Con momenti di rottura e salti di qualità;

  4. Conflittuale;

  5. Energico;

  6. Progettuale e insieme liberante;

  7. Inserito nella storia;

  8. Realizzato con l’aiuto di molteplici collaboratori;

  9. Compiuto in maniera esemplare nella vita di Gesù;

  10. Iscritto nei cuori mediante l’azione dello Spirito Santo nell’uomo interiore

  11. Espresso nel cammino di fede di Maria “Redemptoris Mater”. (DESP p 24)

All’inizio vi ho detto: «Facciamo questa sera una riflessione pastorale», però come titolo vi dico: “Uno sguardo contemplativo: Dio educa il suo popolo”; c’è un po’ di contraddizione in quello che vi ho detto e in quello che ho scritto, ma secondo me c’è qui una chiave di lettura interessante del magistero del nostro Vescovo: quando comincia a parlare di pastorale non inizia mai dicendo: « Allora, che cosa c’è da fare? », ma sempre: « Dio, che cosa sta facendo per noi? ». Allora, se dobbiamo parlare dell’educazione, il procedimento corretto per un’analisi pastorale e per un lavoro pastoralmente corretto e proficuo è: “Partiamo da Dio”; tant’è vero che la sua lettera del dopo-Sinodo aveva questo titolo: “Ripartiamo da Dio”.

Quindi lo sguardo contemplativo sulla realtà non è un di più o qualcosa a lato dell’azione pastorale, ma è il primo passo. Che cosa vuol dire pastorale? Vuol dire tante cose: tenete in mente quello che Gesù dice nel Vangelo, al capitolo 10 del vangelo di Giovanni: « Io sono il buon pastore »; e cosa fa il buon pastore? Conosce le sue pecorelle e le ama, dà la vita per loro. Ora, se la nostra azione vuole essere pastorale, deve essere capace di chiamare per nome, di dare la vita, di condividere la stessa passione che il Signore ha avuto nei confronti della gente. Noi siamo chiamati a condividere la stessa passione educativa e pastorale di Gesù. Ed il Vescovo, nella sua lettera “Dio educa il suo popolo”, mette in evidenza due caratteristiche dell’educazione di Dio; le vediamo proprio velocissimamente, io ve le commento: sono cose molto belle che potete riprendere tranquillamente da voi.

Il progetto educativo di Dio ha alcune caratteristiche, si muove lungo alcune direttive: è, innanzitutto, personale e insieme comunitario: nella sua lettera pastorale il Vescovo fa riferimento al cammino che Dio fa compiere al suo popolo nell’Esodo; quindi si chiede: « Come Dio educa il suo popolo? » e risponde: « Dio educa il suo popolo in modo personale, ad esempio chiamando Mosè, chiamando Aronne, intervenendo con personaggi precisi nel popolo, ma insieme comunitario: è tutto un popolo che si muove ». Questo potrebbe anche essere un criterio interessante per verificare il vostro lavoro: il mio lavoro pastorale è personale e insieme comunitario?

È poi graduale e progressivo: graduale significa che io faccio la proposta prendendo per mano e incontrando la persona, il gruppo, la situazione così com’è, al punto in cui si trova. E progressivo! Cioè non devo pensare: « Siccome il livello è basso, abbasso la proposta », ma interagisco con il soggetto in causa che io voglio conoscere, voglio amare, a cui voglio dare il vangelo prendendolo per mano, e lo faccio progredire. Quindi gradualità e progressione.

Ha momenti di rottura e salti di qualità: spesso Dio conduce il suo popolo a dei guadi, a delle scelte: tutta la Bibbia è fatta di queste grandi possibilità; pensate al Salmo 1: “Beato l’uomo che retto procede e che non siede a consiglio con gli empi”. Due sono le vie: tutto, nell’Antico Testamento e nell’uomo, produce questa duplice possibilità: la via del bene e la via del male, la via dei giusti e la via dei peccatori, la via della santità e la via del peccato. Educare significa porre davanti ad un ragazzo, ad un adolescente, ad un giovane, una duplice possibilità, auspicare una sua libera personale decisione e quindi una rottura: quando uno sceglie una strada, si nega, rompe con un’altra possibilità. Non bisogna aver paura di chiedere e proporre ai ragazzi alcuni salti di qualità.

Conflittuale: è un altro modo di guardare a quello che vi dicevo prima: Dio educa il suo popolo in mezzo alle fatiche, in mezzo alle difficoltà: non aspetta che ci siano le condizioni ottimali per dire « Be’, adesso faccio fare questo passo »; sa di entrare in una situazione che è faticosa, piena di conflitti.

D’altra parte il modo di educare di Dio non è blando, è un educare energico; nel cammino dell’Esodo Dio dà il pane, la parola, la manna, la sua provvidenza: non si tira indietro.

È progettuale e liberante, ha come meta la libertà, la felicità dell’uomo, e per questo ha un procedimento, ha un progredire, ha un progetto.

Inserito nella storia: Dio educa non sulle nuvolette, con gli angioletti, ma con le vicende concrete di un popolo; dovete guardare in faccia alle vicende concrete dei ragazzi e degli adolescenti del paese in cui vivete: un conto è fare l’educatore qua, nella Brianza che una volta era cattolica, e diverso è far l’educatore a Verghera, è diverso far l’educatore a Cinisello Balsamo o a Milano a S. Babila; è diverso perché la realtà storica, la realtà concreta è diversa. Certo, tutti guardano la televisione, tutti vestono allo stesso modo, tutti stravedono per le Spice Girls, tutti mettono gli orecchini in un certo modo, però ci sono delle congiunture culturali, storiche, familiari che rendono preciso il lavoro educativo. Lì siete chiamati ad educare, confrontandovi non semplicemente con i testi di psicologia, con tutto il rispetto per la psicologia, ma con la realtà concreta e storica dei ragazzi che vi sono affidati.

Dio non agisce mai da solo ma coinvolge attorno a sé sempre un sacco di collaboratori. Le ultime tre vicende sono anche abbastanza ovvie, scontate, “vanno bene in tutti i discorsi”: è chiaro che il modello di uomo che si vuole costruire ha il volto preciso di Gesù, e che tutto questo avviene sotto l’azione dello Spirito. Il Vescovo citava come ultima possibilità il modello di Maria perché il 1987 era l’anno di Maria, l’anno mariano promosso dal papa. (DESP vuol dire “Dio educa il suo popolo”).

Il Vescovo quindi dice: «Se vogliamo educare dobbiamo imparare a guardare a Dio». E ancora: «Che cosa nasce da questo sguardo contemplativo di Dio, su Dio? Che conseguenza possiamo trarre? Quali attenzioni la nostra Chiesa deve avere per degli educatori?». Propone così queste quattro attenzioni:

  • una verifica costante di quello che si fa,

  • una concentrazione sugli educatori,

  • riconoscere i mezzi, che lui chiama “educare attraverso”,

  • la scelta di una formazione permanente.

La verifica: imparare a vedere ciò che si fa, a intravedere anche qualche “buco”, qualche lacuna, ciò che non si fa; intravedere il passo possibile, ciò che si potrebbe fare, e quindi imparare a “visitare il cantiere” - dice il Vescovo. Nel suo peregrinare attraverso la diocesi, l’Arcivescovo scopre tante ricchezze, tante possibilità, tanti lavori, tante intuizioni: è un po’ quello che ripropone nella lettera pastorale di quest’anno “Tre racconti dello Spirito”: il lavoro ancora una volta è quello di andare a curiosare, a scavare, a scoprire quello che lo spirito già sta facendo, a vedere quanto già nella nostra Chiesa c’è di buono e scoprire, e credere, che è più il buono che c’è, è più quello che c’è già in azione di quanto noi possiamo pensare, produrre, inventare, fantasticare. Il lavoro educativo è innanzitutto il riconoscimento della forza di Dio che agisce, e poi il nostro desiderio di corrispondere a questa forza.

È poi come se il Vescovo dicesse: « Stiamoci un po’ attenti a questi educatori, concentriamoci su di loro »; evitiamo, cioè, che gli educatori siano quelli usati per tutto, dappertutto, in tutte le situazioni; evitiamo di sfruttare gli educatori e qualifichiamo invece la loro presenza come una presenza che va tutelata, che va curata, che va qualificata, che va difesa, che va pubblicizzata, che va riconosciuta: lui fa l’educatore, è abbastanza, è inutile che si disperda in tante cose. Ma questo è un discorso che va detto non soltanto a voi ma anche al parroco, al consiglio pastorale, a una gestione più globale, perché altrimenti l’impressione è che uno deve fare il catechista però deve fare anche l’animatore della liturgia, deve cantare, deve leggere, deve suonare, deve pulire la Chiesa… E allora, se tutte queste cose sono importanti, come sono tutte cose importanti, alla fine uno ci mette lo stesso impegno.

Allora il Vescovo dice: « Proviamo a valorizzare la figura dell’educatore ». Provate a pensare quanto poco la figura del catechista, da noi, è valorizzata. Lo statuto del catechista, in terra di missione, è molto più forte: se uno è catechista, è catechista per sempre: è catechista nella sua parrocchia ed è catechista fuori; il Vescovo può dirgli: « Senti, adesso tu, per questi mesi vai in quel villaggio, ti pago, e tu stai là e prepari i catecumeni al battesimo. Nessuno di noi si sente di fare una cosa di questo tipo, ma nessun Vescovo in Italia chiede a nessun catechista di farlo. C’è uno statuto giuridico, se volete ecclesiale o ecclesiastico, un pochino debole. Ecco, forse andrebbe valorizzato. Ovviamente, per essere valorizzato, il catechista deve essere anche preparato.

Due anni fa ho avuto la gioia di stare per tre settimane in un centro missionario, in Tailandia, nel nord, in mezzo alla foresta: lì venivano i catechisti dalle valli, e ci mettevano un giorno di viaggio; poi stavano alla missione per una settimana e, stipendiati sempre dalla missione, studiavano, si preparavano, preparavano la catechesi e poi ritornavano alle varie comunità che andavano avanti grazie ai catechisti, perché i missionari potevano recarsi lì solo una volta al mese. Ecco, noi non abbiamo la mentalità e forse neanche la strumentazione per poter fare questo; perciò, il nostro Vescovo chiede che la nostra Chiesa si concentri un po’ di più su queste figure di educatori.

Terzo, imparare a conoscere e ad usare bene dei mezzi attraverso i quali noi educhiamo: analisi e vigilanza sui mezzi; devono essere efficaci, evangelici, persuasivi, cristiani. Attorno a questo mondo, a questa polemica, a questa “sottolineatura” ci sta tutta la realtà del tentativo di far diventare il catechismo sempre più un momento formativo piuttosto che una lezione. Non so se a voi scappa qualche volta di dire: « Ho preparato la lezione di catechismo », e quindi far diventare il catechismo come “un’altra scuola”; e questa è una cosa interessante perché quando c’era un mondo cristiano, tutti erano cristiani e i valori erano cristiani, ai bambini cosa si diceva? « Andiamo a dottrina »: tu sei già cristiano, ti metto dentro i contenuti della fede, così tu sei un cristiano adulto. Ora questo vaso fa acqua da tutte le parti: è inutile che io versi i contenuti della fede, la dottrina della fede; non mi serve, è sprecata. Io devo ricostruire il vaso, devo riplasmare una vita cristiana: tant’è vero che i nostri catechismi della CEI si chiamano “catechismi per la vita cristiana”. Allora il momento di catechismo non è semplicemente o solamente il momento dei contenuti, ma il momento dell’esperienza di vita cristiana, per cui attraverso la preghiera, la liturgia, la carità, il gioco, tutto quel discorso che si diceva prima, cui si accennava prima a proposito dell’esser catechista e animatore, si presenta la globalità di una figura cristiana. Non si può più pretendere di avere il bambino che dalla televisione, dai genitori, dalla scuola, dalla nonna, della società, vive la sua vita da cristiano e deve solamente sapere il catechismo: chi è Dio, chi è Gesù, cos’è la Bibbia, cos’è un sacramento, eccetera eccetera.

Quando andavo a catechismo, il mio parroco mi chiedeva: « Chi è Dio? ». Ed io rispondevo: « Dio è l’essere perfettissimo, creatore e Signore del cielo e della terra ». « Cos’è la Chiesa? ». « È la società visibile fatta dai cristiani, santificata da Cristo », eccetera. Io sapevo la dottrina, però non era detto che io così diventassi cristiano. Voi avete fatto in tempo a far queste cose? No, voi siete più giovani di me, fortunati, il mio parroco vecchio com’era… però era così. Dovevi sapere queste cento domande a memoria (non me ne ricordo più neanche una).

La scelta del Vescovo, poi, è quella di additare agli educatori un momento di formazione permanente: non si può mai smettere di formarsi come educatori, come catechisti; questo è un po’ l’inizio del progetto sull’educare.

Adesso passiamo, attraverso la lettura di questi brani del libro del Sinodo, alla conclusione. Ovvero, il Vescovo dà il “la”, la diocesi si mette in movimento, in riflessione su questo tema dell’educare, con la traccia che il Vescovo dà, e produce del materiale, alcune proposte, alcune iniziative che dopo un po’ di agitazione si depositano nel libro del Sinodo, che diventa normativo per la vita della Chiesa. Lì, sugli educatori leggiamo quanto si è depositato del vissuto, dalla sperimentazione, dal dibattito che si è mosso in diocesi negli anni ‘87 – ’90.